In Eritrea si discute sulle realizzazioni coloniali italiane:

chi le vuole distruggere perché fasciste e chi le vuole restaurare

Asmara: anni ’30 da buttare?

L’inglese Street: «Salviamo il razionalismo».

L’intellettuale Mehari: «No alle testimonianze dell’imperialismo»

anni30

La città vanta un Palazzo Agip in stile Ventennio, un Cinema Dante e un Cinema Roma con arredi Novecento; villini a prora di nave futurista, portici metafisici alla De Chirico, una Farmacia Imperiale, un bar D’Aosta e una Pasticceria Bolognese. È giusto la “c” solitaria di “Pasticeria”, nonché i passanti molto scuri, a dire che non è Sassari né Sabaudia, ma Asmara, capitale dell’Eritrea. Le altre metropoli africane sono baraccopoli di lamiere ondulate assedianti qualche Sheraton. Solo Asmara ha un cuore urbano, nel senso pregnante: viali alberati che invitano al passeggio, piazzette mediterranee dove è piacevole sostare, un piano regolatore nitido e umano che esorta alla civiltà dell’abitare.

È un cuore italiano, ovviamente. Asmara è la conchiglia corrosa di antiche polemiche culturali italiane buttata dalla risacca storica sulle rive del Mar Rosso. Quando architetti come Terragni, Bardi, il giovanissimo Pier Luigi Nervi sperarono di dare all’architettura fascista il volto di un razionalismo con «lo spessore monumentale e classico» della romanità, come ha scritto Paolo Portoghesi. Mussolini li sostenne. Il regime affidò a quella scuola taluni progetti (la Casa del Fascio di Terragni a Como, la discussa nuova stazione di Firenze). Fu una stagione non minore: fino agli anni ’60 l’impronta di quell’architettura italiana ha ispirato l’architettura ufficiale degli Stati Uniti. Il palazzo dell’Fbi a Washington, come il Lincoln Center a New York, potrebbero stare all’Eur, e fu Luigi Moretti (autore della “Casa delle Armi” a Foro Mussolini) a costruire il gigantesco complesso alberghiero Watergate, che ha dato il nome allo scandalo politico che rovinò Nixon.

Da noi, però, alla fine vinse la potente corporazione avversa, degli eclettici accademici alla Marcello Piacentini (Stazione di Milano). Era, in fondo, la vittoria del fascismo-istituzione sul fascismo-rivoluzione. Ai giovani, il duce diede mano libera nelle colonie. La scarsità di capitali scongiurò gli eccessi di retorica monumentale. Asmara ha così un albergo, che si chiamava Ciaao (Compagnia Italiana Alberghi Africa Orientale), costruito nel ’38 da un arch. Vincenzo Pantano, che pare opera di Le Corbusier. Una scalinata-fontana che echeggia la monumentale sistemazione dell’area della Foce di Genova. Decine di villette umbertine, futuriste, rinascimental-fiorentine. E soprattutto il distributore di benzina Fiat, a forma di aeroplano, neo-futurista. Idea dell’architetto G. Pettazzi creata nel 1938, con due tettoie ad ala littoria sporgenti per ben trenta metri, senza sostegno. Solo Frank Lloyd Wright, nella sua celebre Casa sulla cascata, aveva osato sfruttare così arditamente la possibilità del cemento armato per le superfici incredibilmente aggettanti. Si dice che il fascistissimo Pettazzi, al momento di togliere i sostegni dal cantiere, si sia messo su una delle due ali puntandosi una pistola alla tempia: pronto a crollare con la sua costruzione. Oggi tutto è in degrado, naturalmente. Sembrava votato alla fine. Ma ne ha preso le difese un personaggio insospettabile di nostalgie: un residente inglese di nome Mike Street. Nel ’98, sulla rivista Eritrea Profile, ha scritto un articolo: «Bella Asmara, come si può salvare?», denunciando l’abbandono, le ristrutturazioni e i nuovi edifici che minacciavano il carattere Novecento, e l’armonia urbanistica della città.

Ne è nato un dibattito acceso e surreale fra quella che, con buona volontà, si può chiamare la minuscola comunità intellettuale eritrea. Uno scrittore, Michael Mehari, ha polemizzato: «Molti notevoli esempi di quell’architettura, in Europa, rimangono ignorati: che cosa hanno di così speciale quelli di Asmara? Chi ha bisogno delle tecniche e dello stile anni ’30?». Mehari aggiungeva che è ora di radere al suolo tutto quel che ricorda «la dura dominazione coloniale». Gli hanno risposto gli insegnanti del liceo (italiano) G. Marconi in un opuscolo appositamente stampato: «È come proporre di distruggere le piramidi d’Egitto perché costruite da schiavi». Altri intellettuali, di nome Samuel Manna e Ahaz Mekonnen, si sono pronunciati in senso, diciamo così, riformista: Asmara ha bisogno di edifici moderni, ma è vero che un’edilizia senza scrupoli la sta sfigurando. «Preziose porte di legno antiche e infissi sono divelti e sostituiti da strutture di alluminio, incompatibili con la struttura degli edifici. Alcuni nuovi palazzi risultano spiacevoli da guardare».

L’ambasciatore italiano allora in carica, Antonio Bandini, richiesto di entrare nella polemica, se l’è cavata così: «Se avessimo avuto più dibattiti di questo tipo in Italia negli anni ’60 e ’70, molte delle nostre città oggi sarebbero posti migliori da visitare ed abitare». E non gli si può dar torto.

Intanto, qualcosa la polemica ha prodotto. Con i soldi del povero governo eritreo, è in via di restauro il distributore Fiat dell’ardito Pettazzi, che tutti chiamano “l’aeroplano”, e di cui pare la città non possa fare a meno.

Maurizio Blondet

(Mai Taclì N. 5-2004)

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