****
Rimorsi: Lo Stato si “ricorda” di loro con un saldo per generosa militanza.
Quegli àscari eroici, altro che “faccetta nera”
Dopo Massaua, furono inquadrati fin dal 1887, nel nostro esercito
Asmara 1934 - Banda musicale degli Ascari. In sella al muletto il bambino
di 4 anni, l’amico Franco Losacco, figlio del sottufficiale addetto alla banda.
di 4 anni, l’amico Franco Losacco, figlio del sottufficiale addetto alla banda.
Erano cinquantamila. Ne sopravvivono 173. Sono gli àscari: superstiti più che ottuagenari, dei soldati indigeni aggregati alle truppe coloniali italiane, in Eritrea e in Somalia. Hanno una pensione di 25 euro ogni due mesi. Ora riceveranno un “saldo” anticipato, liquidazione rivalutata “una tantum”, per un totale di 254.000 euro, in base a una legge che si approva questa settimana alla Camera (se proposta del Presidente della Commissione Difesa, Luigi Ramponi – ex asmarino n.d.d.)
Nonostante la nobile origine del nome (dal tardo latino “ascarii”, corpo militare speciale registrato fin dal quarto secolo da Ammiamo Marcellino), l’àscaro veniva guardato con sufficienza, se non disprezzo (quasi sinonimo di “terrone”) bersagliato nelle caricature dell’Italietta imperiale. Ma gli àscari non furono solo fedeli gregari dei baldi militi italiani, che inseguivano un posto al sole in Africa Orientale: “lo sguardo nero e lucente, la fronte ombreggiata dal casco coloniale”, nella descrizione di Curzio Malaparte.
Fermo restando il giudizio di Croce sui “facili trionfi promessi” dalla guerra d’Africa, gli storici riconoscono che il contributo degli àscari fu decisivo. Prima riuniti in bande, vennero poi organizzati in battaglioni regolari, dopo lo sbarco italiano a Massaia (1885) e inquadrati nell’esercito italiano dal 1887. Rimasero sulla breccia fino al 1941 e furono i primi a patire massacri. A cominciare dall’Amba Alagi, nel 1895, dove furono annientate le truppe del maggiore Toselli: 1500 àscari rimasero sul campo. Un altro migliaio subì la stessa sorte pochi mesi dopo ad Adua. Con un risvolto feroce: ad ogni àscaro fu tagliato un piede e una mano (per ordine della moglie di Menelik, regina Taitù).
Nella guerra di Libia (1912) occupata la costa, gli àscari (senza rinforzi dall’Italia) erano gli unici a competere con i libici, secondo la testimonianza del colonnello Antonio Miani. Dopo la sconfitta, il ministro delle Colonie, Ferdinando Martini, constatò che “tanti milioni spesi al vento” venivano coronati da una vergognosa fuga” di notte, lasciando gli àscari di presidio, con la promessa che gli italiani sarebbero tornati presto. La rappresentanza del nostro esercito (e del governo) rimase nelle loro mani, finché non furono tutti uccisi. Era un àscaro eritreo ad alzare e ammainare il tricolore, mattina e sera. “Chissà che non comandi meglio di noi”, rifletteva amaramente il ministro Martini.
Con l’avventura coloniale del fascismo si avrà il massimo apporto degli àscari. Per la “riconquista” della Libia, durata una decina d’anni, il maresciallo Graziani, con Badoglio, utilizzò esclusivamente battaglioni eitrei. E fu anche guerra di religione. Contro i musulmani libici, la stragrande maggioranza di ascari erano cristiani copti. “Senza questi reparti, non avremmo potuto tenere le colonie, anche perché non costavano niente, pochi soldi e un po’ di farina”: è la conclusione cui giunge Angelo Del Boca, il più autorevole storico di cose italiane d’Africa …….. (è un’opinione. n.d.d.). Del Boca segue in questi giorni la tesi di una giovane eritrea, laureanda in Scienze politiche alla Statale di Milano, la quale (dopo aver intervistato molti ascari superstiti o loro discendenti) sostiene che “davano il loro sangue perché si sentivano italiani”, non solo per sopravvivere agli stenti.
Fino all’ultima battaglia, quella di Cheren, in Eritrea, secondo Churchill una delle più sanguinose di tutta la seconda guerra mondiale: per difendere il baluardo montagnoso che bloccava l’accesso ad Asmara. Lì, di ascari ne morirono a migliaia. Combattevano ancora a piedi nudi.
Altro che “faccetta nera”!
Di Pietro M. Trivelli
(dal “Messaggero”, mercoledì, 5 maggio 2004)
(Mai Taclì N. 4-2004)