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Daaro Addi, ovvero il Sicomoro del Villaggio. |
10/08/2014 12:21 #22868
da Francesco
Buongiorno Cristoforo, sono sempre interessanti i tuoi scritti.Ed In particolare quelli inerenti il fantasma.
EEA
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10/08/2014 11:08 - 10/08/2014 11:15 #22867
da Agau-del-Semien
Cristoforo in questo suo scritto ci racconta l'opera mirabile del lavoro italiano realizzato in una delle regioni più belle della nostra ex Colonia, il Senhait, con Cheren, la sua Perla, appunto chiamata dalle genti locali, Luluah( لولوة )
Elaberet ( Ela-Baréd, Acqua fredda ): Una nebbia all'improvviso.
Come per incanto si sollevò una nebbia, prima tenue e più bassa, poi densa ed alta tre,quattro metri. L'autocorriera che proveniente da Asmara percorreva la zona con destinazione Cheren si trovò di fianco a questo enorme banco di nebbia mentre la strada calda, assolata era quella di sempre.
I passeggeri, quasi tutti Eritrei, si alzarono in piedi e guardando dai finestrini l'evento insolito e capito che attineva all'azienda che si stava costeggiando, presero ad esclamare in coro; " vuai tilian, vuai tilian !" Un altro miracolo si stava compiendo.
In realtà era una delle prime volte che nell’azienda Casciani- De Nadai aprivano l'acqua per irrigare, a pioggia, ben trentasei ettari di terreno coltivati ad agrumeto, fieno e pomidoro.
Sul finire degli anni cinquanta Guido DE NADAI' socio dei fratelli CASCIANI decise ed attuò un piano di investimenti per trasformare l'azienda di Elaberet (mille ettari, mille operai in piena stagione) prevalentemente a monocoltura di agave per la produzione di fibra per sacchi e cordami, in un centro agro-alimentare di così vaste proporzioni e talmente organico ed autosufficiente da potersi definire unico.
Come sempre in Africa, la prima risorsa da approvvigionare è l'acqua; si costruì una diga a gravità in muratura di pietra che formò un lago di tre milioni di metri cubi in riserva, a monte dell'azienda,si mutò il brullo paesaggio in meglio, comparve fauna palustre mai vista prima, Sotto la diga si costruì una centrale idro-elettrica capace di generare quindici mila volte di energia ed una potenzialità di raddoppio.
L'azienda moderna era quindi nata; disponendo della necessaria energia e dell'acqua razionalmente distribuite tutto diventava realizzabile. Seguì la costruzione di una fabbrica di passata e concentrato di pomodoro in scatola, un caseificio tra i cui prodotti figurava il prestigioso grana; queste due realizzazioni grazie a forniture, tecnologia e personale di Parma.
Sorsero nuove e più moderne stalle con centinaia di mucche di razza frisona già acclimatate in Kenia. Venne ampliato l'agrumeto e le altre colture senza però alterare la primaria vocazione dell'azienda cioè la produzione e lavorazione dell'agave.
Collaborarono alla realizzazione tre,quattro tecnici: montatori e potatori espressamente giunti dall'Italia, una ventina di nazionali residenti: meccanici, tubisti, bergamini, muratori, elettricisti, oltre ai tecnici: geometri, agronomi,ragionieri ecc, Tutti usufruivano di alloggi e mensa.
Gli operai eritrei poterono usufruire di: chiesa, moschea, mercatino coperto e quelli in pianta stabile di casette unifamiliari,casette che vennero costruite prima che tutto il resto. Il pum—pum-pum dei generatori e la luce che si spegneva alle ore ventidue, dopo un convenzionale preavviso, come avveniva in tutte le altre aziende, restò un ricordo.
Il grande progetto fu realizzato in pochi anni, cominciò a dare i primi frutti prima ancora di essère concluso; fu quindi un miracolo di competenze, organizzazione e volontà.
Un miracolo dello stile italiano della tecnica e dell’estetica reso possibile anche dall'impegno ed abnegazione dei lavoratori italiani ed eritrei consapevoli di realizzare una notevole impresa.
Non conosco le sorti cui andò incontro questa azienda ne le sue attuali potenzialità, ma l'età mi ha insegnato ormai che le grandi opere o attività sono collegate agli uomini che le hanno realizzate e che, passati questi, possano incrociare il fanatismo, l'irrazionalità e la miopia di chi vuole creare il nuovo senza conservare ciò che di buono è già stato fatto, ad ogni latitudine naturalmente!
Cristoforo Barberi.
Elaberet ( Ela-Baréd, Acqua fredda ): Una nebbia all'improvviso.
Come per incanto si sollevò una nebbia, prima tenue e più bassa, poi densa ed alta tre,quattro metri. L'autocorriera che proveniente da Asmara percorreva la zona con destinazione Cheren si trovò di fianco a questo enorme banco di nebbia mentre la strada calda, assolata era quella di sempre.
I passeggeri, quasi tutti Eritrei, si alzarono in piedi e guardando dai finestrini l'evento insolito e capito che attineva all'azienda che si stava costeggiando, presero ad esclamare in coro; " vuai tilian, vuai tilian !" Un altro miracolo si stava compiendo.
In realtà era una delle prime volte che nell’azienda Casciani- De Nadai aprivano l'acqua per irrigare, a pioggia, ben trentasei ettari di terreno coltivati ad agrumeto, fieno e pomidoro.
Sul finire degli anni cinquanta Guido DE NADAI' socio dei fratelli CASCIANI decise ed attuò un piano di investimenti per trasformare l'azienda di Elaberet (mille ettari, mille operai in piena stagione) prevalentemente a monocoltura di agave per la produzione di fibra per sacchi e cordami, in un centro agro-alimentare di così vaste proporzioni e talmente organico ed autosufficiente da potersi definire unico.
Come sempre in Africa, la prima risorsa da approvvigionare è l'acqua; si costruì una diga a gravità in muratura di pietra che formò un lago di tre milioni di metri cubi in riserva, a monte dell'azienda,si mutò il brullo paesaggio in meglio, comparve fauna palustre mai vista prima, Sotto la diga si costruì una centrale idro-elettrica capace di generare quindici mila volte di energia ed una potenzialità di raddoppio.
L'azienda moderna era quindi nata; disponendo della necessaria energia e dell'acqua razionalmente distribuite tutto diventava realizzabile. Seguì la costruzione di una fabbrica di passata e concentrato di pomodoro in scatola, un caseificio tra i cui prodotti figurava il prestigioso grana; queste due realizzazioni grazie a forniture, tecnologia e personale di Parma.
Sorsero nuove e più moderne stalle con centinaia di mucche di razza frisona già acclimatate in Kenia. Venne ampliato l'agrumeto e le altre colture senza però alterare la primaria vocazione dell'azienda cioè la produzione e lavorazione dell'agave.
Collaborarono alla realizzazione tre,quattro tecnici: montatori e potatori espressamente giunti dall'Italia, una ventina di nazionali residenti: meccanici, tubisti, bergamini, muratori, elettricisti, oltre ai tecnici: geometri, agronomi,ragionieri ecc, Tutti usufruivano di alloggi e mensa.
Gli operai eritrei poterono usufruire di: chiesa, moschea, mercatino coperto e quelli in pianta stabile di casette unifamiliari,casette che vennero costruite prima che tutto il resto. Il pum—pum-pum dei generatori e la luce che si spegneva alle ore ventidue, dopo un convenzionale preavviso, come avveniva in tutte le altre aziende, restò un ricordo.
Il grande progetto fu realizzato in pochi anni, cominciò a dare i primi frutti prima ancora di essère concluso; fu quindi un miracolo di competenze, organizzazione e volontà.
Un miracolo dello stile italiano della tecnica e dell’estetica reso possibile anche dall'impegno ed abnegazione dei lavoratori italiani ed eritrei consapevoli di realizzare una notevole impresa.
Non conosco le sorti cui andò incontro questa azienda ne le sue attuali potenzialità, ma l'età mi ha insegnato ormai che le grandi opere o attività sono collegate agli uomini che le hanno realizzate e che, passati questi, possano incrociare il fanatismo, l'irrazionalità e la miopia di chi vuole creare il nuovo senza conservare ciò che di buono è già stato fatto, ad ogni latitudine naturalmente!
Cristoforo Barberi.
Ultima Modifica: 10/08/2014 11:15 da Agau-del-Semien.
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09/08/2014 09:16 #22861
da Agau-del-Semien
Cristoforo ci manda questo suo scritto. Buona lettura.
II Fantasma di Saberguma .
Ebbene sì, se ne ritorna a parlare ed un fantasma (vedremo poi che nel nostro caso è più corretto definirlo "Spirito") esiste finchè viene evocato.- Ci racconta la Signora Dell'Oro, sul numero 4 del 2005 del nostro Mai Taclì,; che una guida del posto: Zakaria,; ne conosce l’esistenza e ce lo ricorda ancora a giugno di questo anno!
Al proposito e dopo molti decenni, mi è concesso di parlarne di svelare un segreto e raccontarvi chi era, anzi chi è in realtà questo Spirito. Egli stesso mi predisse che l'avrei fatto;si perché io con il Fantasma ( d'ora in avanti con la F maiuscola) ci ho parlato anzi no ci ho comunicato, anzi dato che un vivente non può comunicare con un fantasma, se ciò avviene, è al contrario ! Infatti questo è ciò' che è accaduto.
Fu un evento eccezionale che potè accadere per una serie irripetibile di circostanze: ero solo, maschio, erede di vecchi Coloniali, amavo e capivo l'Africa come una Madre ( l'altra era la Mamma),coraggioso se non proprio temerario. Mi trovavo nella piana di Saberguma allo scoccare ... naturalmente! della mezza notte. Non ho mai temuto i fantasmi perché ho sempre pensato che non esistessero o che se fossero esistiti non potessero avere comportamenti malevoli, ma solo sentimenti di benevola superiorità nei confronti dei vivi e per questo ho sempre sperato di incontrarne qualcuno e sono stato esaudito.
Gli orridi mostri, i morti viventi, i vampiri,i dinosauri redivivi eccetera sono venuti dopo li ha partoriti la fantasia di una società post-industriale viziata, egoista e quindi sperso- nalizzante e terrificante. Il nostro era, anzi è, alla buona, uno di casa.
Tutto accadde un fine settimana, avevo già sentito parlare dell’ arrivo delle quaglie di passò a Saberguma. Alcuni amici cacciatori ne avevano già appese, in quei giorni, ai loro strangolini; decisi così di andare a caccia e partii la sera per essere sul posto all'alba seguente. Detto fatto: doppietta, cartucciera, saltai sul camioncino di famiglia: un arzillo Balilla, lo feci abbeverare all'autostazione Principe e via giù per i tornanti; prima meta Dongollo Basso dove si trovava un accogliente albergo, una cucina più che buona un'acqua ed un pane indimenticabili, dove passare la notte.
Ma ero molto eccitato, un'eccitazione maggiore e diversa da quella che mi ha sempre preso la sera e la notte prima di andare a caccia, sin da bambino. Un' indomabile insonnia, complice il caldo., uno strano chiarore notturno diffuso anche se in assenza di luna. In fondo quasi metà della nottata era trascorsa, perché rischiare di addormentarsi e perdere l’appuntamento con l'alba?
Decisi di ripartire lasciando l’albergo, spinto più da un impulso che dal desiderio di raggiungere la meta. Qualche chilometro prima di Mai Atal la figura di un uomo attraversò la strada uscendo: alla mia sinistra, dalla boscaglia ed entrò sparendo in un campo di durra matura. Che fare? Era un conna- zionale ed anziano, ma non chiese nulla alla macchina che sopraggiungeva; pensai queste cose percorrendo qualche metro e rallentando quando la scena si ripetè uguale sempre da sinistra quindi non era un ritorno, poi non muoveva gambe e piedi ma scivolava come sull'acqua. Certo era lui: il Fantasma di Saberguma, ne parlavano spesso ad Asmara, mai visto da una littorina o dall'autocorriera ma a volte da viandanti soli o dagli autisti dei camioncini che trasportavano latte o pesce comunque sempre di notte.
Questa volta .ci siamo, capita a me ma pensai: è meglio dirlo a nessuno. Qualche considerazione., qualche altro metro percorso, la scena si ripeté per la .terza volta; il campo di durra era terminato ed io avevo rallentato l’andatura di molto.
Egli si fermò sul ciglio della strada e mi indicò una pista, verso la mia destra, di quelle che usavano i carbonai.
Da quel momento mi comunicava perché intesi i suoi messaggi non attraverso i sensi ma direttamente nel cervello, mi disse di girare percorrere un tratto della pista e restare al coperto in un'ansa del campo di durra sparendo. Eseguii tranquillo, mi dissi: non può fare del male a nessuno, assomiglia tantissimo al mio bisnonno, al nonno, a tanti vecchi coloniali amici di famiglia.
Come mi fermai la scena fu surreale, mi stava di fronte e lo vedevo attraverso il parabrezza; per rispetto spensi i fari ma lui non perse una certa luminosità. Vestiva in cachi: sahariana, pantaloncini,casco coloniale.
Mi chiesi: sarà stato un militare? può anche non esserlo, vestivano tutti così in bassopiano. Mi comunicò subito di non fare domande sull'Aldilà perché non autorizzato, a rispondere e perché non è dato ai vivi di comprendere, di non fare domande personali altrimenti l'avrei individuato dato che la comunità anche dei trapassati non era grandissima.
Si bloccò così ogni mia iniziativa lasciandomi i dubbi che mi attanagliavano: un agricoltore, un caduto di Dogali, il colonnello De Cristoforis in persona, monsignor De Jacobis in abiti civili? improbabile quest'ultima ipotesi, allora non si usava! una persona,qualunque tra i grandi spiriti che aleggiano in quella zona? Tutti in fondo avevano una presenza aristocratica;ma di colpo capii: era ed è soltanto lo spirito, dei nostri vecchi!
Continuò col comunicarmi, sempre per via telepatica, che era lì e che lì sarebbe rimasto per sempre ed era un premio. Alla sua morte non venne punito ma in parte premiato per le sue,azioni ( questo potevo capirlo; non per niente che tutte -ripeto tutte- le religioni prevedono in una forma o nell'altra un premio o un castigo, relativo alle azioni compiute in vita! E gli fu dato così di scegliere il compito ed il luogo per la sua presenza eterna.
Ebbene mi disse che il compito che aveva scelto sarebbe stato quello di testimoniare il passaggio della nostra presenza, ed il luogo la piana di Saberguma ove sbarcato aveva visto la prima Africa con le sue: lepri, gazzelle e sciacalli, che li di notte aveva sentito ridere le iene,ai margini di quella piana, al piede dei contrafforti dell'altipiano aveva visto abbeverarsi, in un verde di acacie che non ci sono più, branchi di facoceri,cudù minori e l'antilope più piccola il dik-dik; nel verde degli oleastri ,che non ci sono più, l'antilope più grande il cudù maggiore, nella polvere: stormi di tortore, faraone, pernici, coturnici, merli metallici e passeri tessitori. Lì non aveva più patito il freddo, solo lì gli bastava ciò che indossava, quello per lui era il paradiso terrestre e non aveva avuto possibilità di conoscerne altri, a quello non rinunciava. Ecco perché il Fantasma è li e qualche volta ricompare.
Il Fantasma quindi incarna (anzi no essendo un fantasma!) diciamo sublima lo "spirito" di migliaia di uomini forti che invece di prendere umilmente la strada delle Americhe prese quella dell'Africa con entusiasmo, speranza ed orgoglio conservando non il rancore verso la Patria ingrata ma la devozione al Re, alla Regina (all'epoca Umberto 1° e Margherita) ed alla bandiera tricolore.
Migliaia di uomini decisi a combattere come si trattasse del prosieguo del Risorgimento e per conquistare un appezzamento di terra che poteva essere dato in "concessione" o espletare il proprio mestiere in modo più promettente e dignitoso.
Riponevano, questi uomini, negli zaini anche le migliori sementi, le marze per gli innesti, le barbatelle di vite e piante racchiuse in pale di fico d'India per mantenerle fresche o i ferri del mestiere; vestivano cachi come il Fantasma e portavano il casco di sughero perché temevano soltanto il caldo.
Per questo il Fantasma aveva scelto di essere presente: simbolo e testimone perenne dello spirito dei primi arrivati, aveva scelto non a caso il luogo: Saberguma ove si snoda la principale via di comunicazione tra il mare e il capoluogo, per seguire i movimenti, lo sviluppo e la vita della regione e perché quella era la prima zona d’Africa apparsa ai suoi occhi.
Questo è quanto mi rivelò reputandomi degno ed anticipandomi che un giorno l'avrei reso pubblico,nel modo più consono: scrivendolo al Mai Taclì non per rivelare una verità che in fondo tutti noi conosciamo, ma per ricordarla.
Sparì rientrando nel campo di durra senza un fruscio. Come svanì ebbi l'impressione di essermi appena risvegliato e messo in moto il camioncino ripresi, ancora nella notte, la strada di casa.
Quel giorno le quaglie non lamentarono una sola caduta, lo strangolino era vuoto, la cartucciera piena, il mio cuore un po'più consapevole.
Cristoforo Barberi.
II Fantasma di Saberguma .
Ebbene sì, se ne ritorna a parlare ed un fantasma (vedremo poi che nel nostro caso è più corretto definirlo "Spirito") esiste finchè viene evocato.- Ci racconta la Signora Dell'Oro, sul numero 4 del 2005 del nostro Mai Taclì,; che una guida del posto: Zakaria,; ne conosce l’esistenza e ce lo ricorda ancora a giugno di questo anno!
Al proposito e dopo molti decenni, mi è concesso di parlarne di svelare un segreto e raccontarvi chi era, anzi chi è in realtà questo Spirito. Egli stesso mi predisse che l'avrei fatto;si perché io con il Fantasma ( d'ora in avanti con la F maiuscola) ci ho parlato anzi no ci ho comunicato, anzi dato che un vivente non può comunicare con un fantasma, se ciò avviene, è al contrario ! Infatti questo è ciò' che è accaduto.
Fu un evento eccezionale che potè accadere per una serie irripetibile di circostanze: ero solo, maschio, erede di vecchi Coloniali, amavo e capivo l'Africa come una Madre ( l'altra era la Mamma),coraggioso se non proprio temerario. Mi trovavo nella piana di Saberguma allo scoccare ... naturalmente! della mezza notte. Non ho mai temuto i fantasmi perché ho sempre pensato che non esistessero o che se fossero esistiti non potessero avere comportamenti malevoli, ma solo sentimenti di benevola superiorità nei confronti dei vivi e per questo ho sempre sperato di incontrarne qualcuno e sono stato esaudito.
Gli orridi mostri, i morti viventi, i vampiri,i dinosauri redivivi eccetera sono venuti dopo li ha partoriti la fantasia di una società post-industriale viziata, egoista e quindi sperso- nalizzante e terrificante. Il nostro era, anzi è, alla buona, uno di casa.
Tutto accadde un fine settimana, avevo già sentito parlare dell’ arrivo delle quaglie di passò a Saberguma. Alcuni amici cacciatori ne avevano già appese, in quei giorni, ai loro strangolini; decisi così di andare a caccia e partii la sera per essere sul posto all'alba seguente. Detto fatto: doppietta, cartucciera, saltai sul camioncino di famiglia: un arzillo Balilla, lo feci abbeverare all'autostazione Principe e via giù per i tornanti; prima meta Dongollo Basso dove si trovava un accogliente albergo, una cucina più che buona un'acqua ed un pane indimenticabili, dove passare la notte.
Ma ero molto eccitato, un'eccitazione maggiore e diversa da quella che mi ha sempre preso la sera e la notte prima di andare a caccia, sin da bambino. Un' indomabile insonnia, complice il caldo., uno strano chiarore notturno diffuso anche se in assenza di luna. In fondo quasi metà della nottata era trascorsa, perché rischiare di addormentarsi e perdere l’appuntamento con l'alba?
Decisi di ripartire lasciando l’albergo, spinto più da un impulso che dal desiderio di raggiungere la meta. Qualche chilometro prima di Mai Atal la figura di un uomo attraversò la strada uscendo: alla mia sinistra, dalla boscaglia ed entrò sparendo in un campo di durra matura. Che fare? Era un conna- zionale ed anziano, ma non chiese nulla alla macchina che sopraggiungeva; pensai queste cose percorrendo qualche metro e rallentando quando la scena si ripetè uguale sempre da sinistra quindi non era un ritorno, poi non muoveva gambe e piedi ma scivolava come sull'acqua. Certo era lui: il Fantasma di Saberguma, ne parlavano spesso ad Asmara, mai visto da una littorina o dall'autocorriera ma a volte da viandanti soli o dagli autisti dei camioncini che trasportavano latte o pesce comunque sempre di notte.
Questa volta .ci siamo, capita a me ma pensai: è meglio dirlo a nessuno. Qualche considerazione., qualche altro metro percorso, la scena si ripeté per la .terza volta; il campo di durra era terminato ed io avevo rallentato l’andatura di molto.
Egli si fermò sul ciglio della strada e mi indicò una pista, verso la mia destra, di quelle che usavano i carbonai.
Da quel momento mi comunicava perché intesi i suoi messaggi non attraverso i sensi ma direttamente nel cervello, mi disse di girare percorrere un tratto della pista e restare al coperto in un'ansa del campo di durra sparendo. Eseguii tranquillo, mi dissi: non può fare del male a nessuno, assomiglia tantissimo al mio bisnonno, al nonno, a tanti vecchi coloniali amici di famiglia.
Come mi fermai la scena fu surreale, mi stava di fronte e lo vedevo attraverso il parabrezza; per rispetto spensi i fari ma lui non perse una certa luminosità. Vestiva in cachi: sahariana, pantaloncini,casco coloniale.
Mi chiesi: sarà stato un militare? può anche non esserlo, vestivano tutti così in bassopiano. Mi comunicò subito di non fare domande sull'Aldilà perché non autorizzato, a rispondere e perché non è dato ai vivi di comprendere, di non fare domande personali altrimenti l'avrei individuato dato che la comunità anche dei trapassati non era grandissima.
Si bloccò così ogni mia iniziativa lasciandomi i dubbi che mi attanagliavano: un agricoltore, un caduto di Dogali, il colonnello De Cristoforis in persona, monsignor De Jacobis in abiti civili? improbabile quest'ultima ipotesi, allora non si usava! una persona,qualunque tra i grandi spiriti che aleggiano in quella zona? Tutti in fondo avevano una presenza aristocratica;ma di colpo capii: era ed è soltanto lo spirito, dei nostri vecchi!
Continuò col comunicarmi, sempre per via telepatica, che era lì e che lì sarebbe rimasto per sempre ed era un premio. Alla sua morte non venne punito ma in parte premiato per le sue,azioni ( questo potevo capirlo; non per niente che tutte -ripeto tutte- le religioni prevedono in una forma o nell'altra un premio o un castigo, relativo alle azioni compiute in vita! E gli fu dato così di scegliere il compito ed il luogo per la sua presenza eterna.
Ebbene mi disse che il compito che aveva scelto sarebbe stato quello di testimoniare il passaggio della nostra presenza, ed il luogo la piana di Saberguma ove sbarcato aveva visto la prima Africa con le sue: lepri, gazzelle e sciacalli, che li di notte aveva sentito ridere le iene,ai margini di quella piana, al piede dei contrafforti dell'altipiano aveva visto abbeverarsi, in un verde di acacie che non ci sono più, branchi di facoceri,cudù minori e l'antilope più piccola il dik-dik; nel verde degli oleastri ,che non ci sono più, l'antilope più grande il cudù maggiore, nella polvere: stormi di tortore, faraone, pernici, coturnici, merli metallici e passeri tessitori. Lì non aveva più patito il freddo, solo lì gli bastava ciò che indossava, quello per lui era il paradiso terrestre e non aveva avuto possibilità di conoscerne altri, a quello non rinunciava. Ecco perché il Fantasma è li e qualche volta ricompare.
Il Fantasma quindi incarna (anzi no essendo un fantasma!) diciamo sublima lo "spirito" di migliaia di uomini forti che invece di prendere umilmente la strada delle Americhe prese quella dell'Africa con entusiasmo, speranza ed orgoglio conservando non il rancore verso la Patria ingrata ma la devozione al Re, alla Regina (all'epoca Umberto 1° e Margherita) ed alla bandiera tricolore.
Migliaia di uomini decisi a combattere come si trattasse del prosieguo del Risorgimento e per conquistare un appezzamento di terra che poteva essere dato in "concessione" o espletare il proprio mestiere in modo più promettente e dignitoso.
Riponevano, questi uomini, negli zaini anche le migliori sementi, le marze per gli innesti, le barbatelle di vite e piante racchiuse in pale di fico d'India per mantenerle fresche o i ferri del mestiere; vestivano cachi come il Fantasma e portavano il casco di sughero perché temevano soltanto il caldo.
Per questo il Fantasma aveva scelto di essere presente: simbolo e testimone perenne dello spirito dei primi arrivati, aveva scelto non a caso il luogo: Saberguma ove si snoda la principale via di comunicazione tra il mare e il capoluogo, per seguire i movimenti, lo sviluppo e la vita della regione e perché quella era la prima zona d’Africa apparsa ai suoi occhi.
Questo è quanto mi rivelò reputandomi degno ed anticipandomi che un giorno l'avrei reso pubblico,nel modo più consono: scrivendolo al Mai Taclì non per rivelare una verità che in fondo tutti noi conosciamo, ma per ricordarla.
Sparì rientrando nel campo di durra senza un fruscio. Come svanì ebbi l'impressione di essermi appena risvegliato e messo in moto il camioncino ripresi, ancora nella notte, la strada di casa.
Quel giorno le quaglie non lamentarono una sola caduta, lo strangolino era vuoto, la cartucciera piena, il mio cuore un po'più consapevole.
Cristoforo Barberi.
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08/08/2014 06:22 #22831
da Francesco
Buongiorno Cristoforo,
anch’io, dopo avere rosicchiato il cocco “peloso” dal sapore insipido, mi accingevo a trasformare il seme in una trottola.
Solo stamani ho saputo che si chiamava “ noce del dum”dell’omonima palma e che era la materia prima per la confezione dei bottoni.
Grazie e EEA
anch’io, dopo avere rosicchiato il cocco “peloso” dal sapore insipido, mi accingevo a trasformare il seme in una trottola.
Solo stamani ho saputo che si chiamava “ noce del dum”dell’omonima palma e che era la materia prima per la confezione dei bottoni.
Grazie e EEA
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08/08/2014 05:21 #22827
da Agau-del-Semien
L'Amico Cristoforo ci manda questo suo scritto. Buona lettura.
Dai "cocchi": trottole e bottoni !
Sul numero tre del nostro Mai Taclì (mag. giù. 2005) un signore chiede di essere edotto sulle modalità di sgusciatura delle noci del dum. Non sono in grado di fornire spiegazioni tecniche, spero altri lo faccia no per non deludere le sue aspettative.
La richiesta però ha suscitato in me due reazioni: un ricordo, che at¬tiene alla sfera del sentimento -le trottole- ed una piccola ricerca, che attiene al campo dell'economia -i bottoni- appunto.
II ricordo è: che da ragazzi le noci del dum, che chiamavamo impropriamente "cocchi",le sgusciavamo dopo averne diligentemente rosicchiato as¬saporandone il mallo, per ricavarne il seme definito anche “avorio vegetale” e trasformarlo in bellissi¬me trottole data la sua forma naturale.
Si procedeva intaccando, per asportarla, battendola con una pietra aguzza la prima sottile protezione che è durissima e simile ad una vetrificazione; si raggiungeva così la parte edule che natural¬mente non andava dispersa, restava un guscio ripulito che segato tutto intorno permetteva l'uscita di quella che sarebbe diventata dopo una sommaria pulizia e l'inserimento di un chiodo troncato, per farne la punta, una bellissima trottola. E qui finiva la nostra industria.
La piccola ricerca ci fornisce invece la descrizione delle foreste delle palme dum e delle attività dei bottonifici eritrei dell'epoca; non sarà, ripeto tanto pertinente alla richiesta iniziale ma è una ul¬teriore dimostrazione che non ci fu campo e materie prime locali che non venissero presi in seria considerazione e trattati per lo sviluppo ed incremento economico della zona con la costruzione di edifici e macchinari (in sede locale) creando manodopera che andava così qualificandosi. Anche in questo campo le materie e le conoscenze locali venivano trasformate in beni senza l'intervento di alcun fattore estraneo all’ Eritrea ed il prodotto sempre di buona qualità, veniva anche esporta¬to.
Pertanto si segnala a coloro che sono maggiormente interessati:la descrizione delle foreste che: è opera di Giacinto GAMBIRASIO di Ber¬gamo e risale al 1939. I "Bottonifici" sono invece censiti e descritti dalla rivista l'Eritrea 1949 edito dalla Tipografia Francescana di Asmara (numero unico).
Il materiale per la ricerca è stato gentilmente fornito,in copia, dall'amico asmarino Paolo MAZZOLENI e pertanto lo ringrazio.
Cristoforo Barberi.
Dai "cocchi": trottole e bottoni !
Sul numero tre del nostro Mai Taclì (mag. giù. 2005) un signore chiede di essere edotto sulle modalità di sgusciatura delle noci del dum. Non sono in grado di fornire spiegazioni tecniche, spero altri lo faccia no per non deludere le sue aspettative.
La richiesta però ha suscitato in me due reazioni: un ricordo, che at¬tiene alla sfera del sentimento -le trottole- ed una piccola ricerca, che attiene al campo dell'economia -i bottoni- appunto.
II ricordo è: che da ragazzi le noci del dum, che chiamavamo impropriamente "cocchi",le sgusciavamo dopo averne diligentemente rosicchiato as¬saporandone il mallo, per ricavarne il seme definito anche “avorio vegetale” e trasformarlo in bellissi¬me trottole data la sua forma naturale.
Si procedeva intaccando, per asportarla, battendola con una pietra aguzza la prima sottile protezione che è durissima e simile ad una vetrificazione; si raggiungeva così la parte edule che natural¬mente non andava dispersa, restava un guscio ripulito che segato tutto intorno permetteva l'uscita di quella che sarebbe diventata dopo una sommaria pulizia e l'inserimento di un chiodo troncato, per farne la punta, una bellissima trottola. E qui finiva la nostra industria.
La piccola ricerca ci fornisce invece la descrizione delle foreste delle palme dum e delle attività dei bottonifici eritrei dell'epoca; non sarà, ripeto tanto pertinente alla richiesta iniziale ma è una ul¬teriore dimostrazione che non ci fu campo e materie prime locali che non venissero presi in seria considerazione e trattati per lo sviluppo ed incremento economico della zona con la costruzione di edifici e macchinari (in sede locale) creando manodopera che andava così qualificandosi. Anche in questo campo le materie e le conoscenze locali venivano trasformate in beni senza l'intervento di alcun fattore estraneo all’ Eritrea ed il prodotto sempre di buona qualità, veniva anche esporta¬to.
Pertanto si segnala a coloro che sono maggiormente interessati:la descrizione delle foreste che: è opera di Giacinto GAMBIRASIO di Ber¬gamo e risale al 1939. I "Bottonifici" sono invece censiti e descritti dalla rivista l'Eritrea 1949 edito dalla Tipografia Francescana di Asmara (numero unico).
Il materiale per la ricerca è stato gentilmente fornito,in copia, dall'amico asmarino Paolo MAZZOLENI e pertanto lo ringrazio.
Cristoforo Barberi.
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07/08/2014 15:34 #22821
da Agau-del-Semien
1)-Punt : imbarcazione a fondo piatto, mossa da un lungo palo, normalmente usata in palude.
2)- Punt: Moneta irlandese.
3)- Calciare la palla prima che tocchi terra.
Ho risposto bene, ne? O basta là!
Agau
2)- Punt: Moneta irlandese.
3)- Calciare la palla prima che tocchi terra.
Ho risposto bene, ne? O basta là!
Agau
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