L'equatore termico
Ne aveva tanto sentito parlare dell’Africa e ne aveva tanto letto in riviste, giornali e, da ragazzo, in libri di ogni genere che ora che si trovava a viaggiare per raggiungerla, gli pareva una cosa normale.
Succede sempre così. Uno parla tanto di una cosa, ne parla a lungo, ne riparla con gli amici fino alla nausea, fino a sentirsi dire di piantarla, di smetterla; ne parla con tanta cognizione di causa, con tanta dovizia di particolari che, a non farci proprio attenzione, si direbbe che sia un esperto; invece è solo che ha cominciato prestissimo ad appassionarsi all’argomento e poi ha preso gusto a svilupparne la conoscenza per pura curiosità.
E ora, appunto, che navigava in mezzo al Mar Rosso, si sentiva come a casa sua. Emozionato sì, ma nella stessa misura di uno che dopo aver tanto desiderato il ritorno in famiglia, riesce finalmente ad arrivarvi; era pago, sentiva dentro un senso di pienezza che avrebbe inutilmente cercato di spiegare. Era soddisfatto e basta.
Lasciate alle spalle le rive aride del Canale di Suez, la chiglia della nave fendeva l’onda del mare – si domandava perché lo chiamavano Rosso se era azzurro come tutti gli altri – mentre dietro la poppa i delfini saltavano impazziti in una sarabanda che lo teneva incantato per ore e ore.
Al passaggio del Canale a bordo era stata data una festa con balli e luminarie. In coperta la gente, mentre l’orchestrina si sdilinquiva in patetici “a solo” di tanghi argentini e valzer viennesi, i passeggeri avevano fatto coscienziosamente finta di divertirsi perché era d’obbligo divertirsi altrimenti la festa non avrebbe avuto senso e tutti quei “cotillons” ben calcati in testa ai ballerini e alle ballerine non avrebbero avuto altro scopo se non quello di mascherare appena appena tante piccole, povere situazioni di miseria che, con quel viaggio verso un altro destino, la gente cercava di cambiare. Per alcuni sarebbe stato un viaggio verso nuove realtà, per altri un viaggio verso illusioni e nuove delusioni; ma valeva la pena di tentare e frattanto valeva la pena di ballare, di calcarsi in testa il cotillon e di aspirare a pieni polmoni l’aria salsa del Mar Rosso.
A notte inoltrata, appoggiato lungo la balaustra del ponte della classe turistica, mentre fumava, era stato avvicinato da un vecchio marinaio genovese che aveva almeno il doppio della sua età.
“Si diverte?” – gli aveva chiesto.
“Un po’ “ – aveva risposto – “ma mi diverto più a guardare il mare che a ballare”.
“A me il mare è venuto a noia” – aveva proseguito il marinaio senza che lui gli chiedesse niente – “sono venti anni che giro il mondo”.
Avevano continuato a fumare tutti e due in silenzio e a guardare la scia dell’acqua che, nella notte, pareva fosforescente.
“Vent’anni per mare sono tanti” – aveva pensato lui ma non lo aveva detto. Invece aveva chiesto: “In Africa c’è stato?”
“Sì” – aveva risposto l’altro – “ma non mi piace, fa troppo caldo!” e si era zittito di nuovo.
“Io è la prima volta che ci vado…”
“ L’ho capito” – aveva esclamato il marinaio – “se riesci ad adattarti… ha il suo fascino!”
Lui aveva assentito.
Erano stati assieme qualche minuto, fino alla nuova campana quando erano venuti a dare il cambio al marinaio poi si erano salutati e ciascuno di loro se n’era andato a cuccia a dipanare i pensieri che il giorno aveva ammatassato.
Lui aveva l’Africa nel sangue e non gliela avrebbe tolta di dosso nemmeno il Padreterno. Quando si distese nella cuccetta era pieno di rancore e non riusciva a spiegarsi il perché; probabilmente si disse era perché quel marinaio della malora aveva detto che nel continente africano fa troppo caldo. Un accidente fa troppo caldo, bisognerebbe intanto distinguere per non essere qualificati ignoranti. Prima di tutto quello.
Caldo? Caldo un corno! Colpa dei libri di Pierre Loti e di tutte le sue storie sui deserti riarsi e sulla legione straniera! Certo che se si guarda l’Africa da quel punto di vista di caldo ce n’è da buttarne via. Ma che c’entra tutto questo? Basta pensare, al contrario, ai picchi dell’altipiano dell’Atlante, alla cima di Ras Dascian in Etiopia, al Ruvenzori, al monte Kenia, al Kilimangiaro, da quelle parti fa un freddo da cani e non soltanto la notte ma anche di giorno e c’è tanto di neve e in alcuni punti anche qualche bel tratto di ghiaccio permanente.
Allora sarà bene cominciare a parlare dell’Africa in altri termini a cominciare anche a distinguere che differenza c’passa tra la temperatura che si soffre nella depressione della Dancalia e quella che si gode in certe vallate della Rhodesia e del Cercer. Si addormentò.
Una mattina la nave attaccò nel porto di Massaua e lui ebbe il primo impatto. Non fu come si sarebbe aspettato, almeno secondo le letture che aveva fatto fino a quel giorno.
Gli venne incontro, dalla banchina stracarica di merce buttata, lì ad arrostire al sole, uno schiaffo di caldo che gli mozzò il fiato in gola; fu come se qualcuno gli avesse aperto la bocca per forza costringendolo a respirare un getto di aria rovente. Sentì che i polmoni facevano fatica a pompare, sentì che la testa sembrava come chiusa in una scatola bollente. Il sudore cominciò a colargli giù lungo il collo per il filo della schiena fino all’attaccatura delle natiche in un rivolo continuo e, davanti, sul petto, sotto le ascelle, lungo i fianchi, sulle ginocchia. In un attimo fu madido, zuppo, con la camicia attaccata alla pelle e i pantaloni che gli aderivano alle cosce come se li avesse indossati appena tolti da una tinozza di acqua.
Guardò il cielo: non era azzurro: era colore del piombo, immobile come una lastra di metallo sulla quale il sole si rifletteva implacabile.
C’era tutto intorno, un silenzio irreale e quei pochi movimenti che si notavano, non sembravano veri nemmeno quelli.
“si metta qualcosa in testa” – gli ripetè - “qui, con questo caldo c’è poco da scherzare, uno si trova in terra prima di aver detto “Amen” e quando si risveglia, se si risveglia, nella migliore delle ipotesi si ritrova col ghiaccio in testa e il cervello lesso…”
Si mise in testa il casco di foglie di banano che aveva comprato a Porto Said. Gli venne da ridere al pensiero di quanto era stato insistente l’accompagnatore egiziano per convincerlo ad acquistare qualcosa: aveva cominciato con certe fotografie di donne che mettevano in mostra tutto ciò che c’era da mettere in mostra e anche qualcosa in più, aveva continuato – strizzando gli occhi con aria complice – a mostrargli certe cartine piene di una polverina bianca che, gli aveva assicurato, erano zeppe di “cocaina che stare veramente bomba”, poi visti inutili i tentativi, aveva proposto alcune visite a locali dove era possibile assistere a certi spettacoli proibiti per ripiegare, esaurito il repertorio delle attrazioni peccaminose, su più prosaiche e mercantilistiche offerte di indumenti orientali fra cui, appunto, caschi coloniali, burnus, sandali, caffetani.
Scese in banchina, e con quel casco che gli largheggiava un po’ in testa si sentì finalmente ridicolo e depresso. Aveva creduto che l’Africa lo avrebbe accolto in altra maniera ma, se glielo avessero chiesto, non avrebbe mai saputo dire come questa maniera avrebbe dovuto essere. Avrebbe dovuto essere diversa, ecco, diversa e basta. Come? Diversa. Come si fa a dire come?! Diversa e non certo così con questo silenzio che faceva quasi male alle orecchie e con tutto questo sudore che faceva sentire sporchi.
Poi sentì l’odore. Forse lo aveva sentito subito e non se n’era accorto. In quel momento lo colpì come una staffilata alle narici. Fu un altro impatto, olfattivo stavolta, che gli chiuse la gola, che gliela strinse. Era qualcosa che non aveva mai annusato e che non avrebbe saputo definire; stagnava nell’aria, era l’aria stessa perché, se ne accorse subito, non si limitava a restare nelle narici, ma si addensava, si raggrumava sulle labbra e se tanto tanto appena il sole aveva inaridito la pelle e succedeva secondo dopo secondo, le inumidivi con la lingua per ridare loro una parvenza di vitalità, quell’odore diventava sapore e te lo sentivi dentro la bocca codensa, che si era fatta cibo, oltreché respiro.
Aspirò, cercò di individuare quel tanfo mentre si avviava di buon passo verso il porticato che si ergeva accogliente al di là della banchina e che prometteva un po’ di refrigerio fra tutto quell’inferno di luce.
Appena fu in quella zona di ombra che gli archi consentivano combattendo col sole, si tolse il casco e tornò ad aspirare, curioso malgrado il disgusto che quell’odore gli aveva suscitato al primo urto.
“Odor d’Africa” – gli disse uno che gli sorse accanto dal niente.
“Disgustoso” – esclamò lui e si accorse che parlava ad un signore dai capelli bianchi attaccati alla testa per il sudore, con una camicia stazzonata aperta sul petto, che se ne stava seduto ad un tavolino con un bicchiere di birra davanti.
“Ci farà il callo” vr- disse quello senza muoversi di un centimetro e continuando a sventolarsi con un ventaglio di paglia – “se si ferma da queste parti ci farà il callo e il giorno che non lo sentirà più finirà con l’averne nostalgia!”
“Balle” – ribattè lui piccato e irritato – “al puzzo non si fa mai l’abitudine, è una questione di civiltà!”.
“Vedrà… vedrà…” – disse l’altro senza scomporsi – “io ho provato a tornare in Europa, niente da fare, sono insabbiato ormai” – e sorrise come tra sé – “senza questo odore mi pare di essere spaesato, mi manca qualcosa!”.
“Di che si tratta?” – chiese ancora il più giovane.
“Muschio, pepe, cannella, sterco di cammello bruciato, sudore… un po’ di tutto…”.
“È molto che è qua?”
“Vent’anni!”
“Nostalgia?”.
“I primi tempi, ora non più, sto bene qui, la gente mi piace, le donne sono dolcissime, sensibili, ne ho sposata una, ho sei figli…”
“E il caldo…”
“A nord di Massaua” – e allungò il dito verso una direzione vaga – “passa l’equatore termico, per questo c’è tanto caldo… dovrebbe sentire verso l’arcipelago delle Dahalak”.
La conversazione languiva, si erano detti quasi tutto quando improvvisamente il sole cominciò a farsi più rosso per annunciare che stava per sparire.
Ecco, questo il giovane lo aveva letto nei suoi libri e lo ritrovava intatto nella realtà che aveva davanti.
Un attimo di sosta, un attimo brevissimo; poi dalla luminosità di un giorno che faceva quasi impazzire, si passava ad una luce più rossa e meno intensa e, subito dopo, come calasse un sipario, la sera, mentre all’orizzonte più lontano restavano come sospese a mezz’aria poche pennellate di colore vivace quasi il sole volesse dimostrare quanto era restio ad abbandonare la volta del cielo.
Questo sì, era proprio come aveva letto nei libri.
Si salutarono brevemente, rapidamente.
Il vecchio si inoltrò tra i vicoli delle vecchie costruzioni vicino al porto, il giovane si avviò verso l’albergo che gli avevano indicato.
Lungo la strada incrociò una carovana di cammelli. Venivano, gli fu detto, dal bassopiano occidentale ed erano carichi di carbone di legna, di pelli di zebù conciate, dei frutti durissimi della palma dum.
Gli passarono accanto dondolandosi sulle lunghe zampe con a fianco i cammellieri a torso nudo e i capelli ispidi, poco più in là, sentì rapidi urli gutturali e i cammelli si accasciarono uno dopo l’altro per trascorrere la notte. Gli uomini accesero i fuochi e misero a bollire i pentoloni per il “chai”, il thè forte.
Dai falò si alzava un odore acre che prendeva le narici.
Ricordò quanto gli aveva detto il signore anziano sotto i portici vicino alla banchina del porto, “escrementi secchi di cammello”.
Dovevano essere proprio loro, dunque, se puzzavano in quella maniera.
Il caldo si era calmato ora. La notte era venuta come una mazzata; d’improvviso.
Una notte trasparente come le acque del mare che lambivano la banchina lungo la quale si trovò a camminare subito dopo aver cenato ed essersi sistemato in albergo.
Tentò di riepilogare le sensazioni che aveva provato. Erano troppe, ma ce la faceva a metterle insieme, a tirare le somme. Si sentì come uno che tenti di raccogliere le idee, di riassumere le impressioni che ha provato dopo una malattia che lo ha tenuto incosciente per un lungo tempo. Praticamente è impossibile.
Sono impressioni a sprazzi, a bocconi; una sì e una no… una chiara e una confusa… No, non ce l’avrebbe fatta. L’arrivo, il mare, i delfini, il marinaio, il porto che gli si era presentato improvvisamente davanti agli occhi, il sole nel cielo, quel senso di morsa attorno al cranio, di morsa che stringe, che stringe; quell’odore? Un pugno nello stomaco era stato.
Camminò a lungo soffermandosi ogni tanto a guardare l’acqua. Sotto il pelo vedeva luminosità mai viste nei mari di casa sua; come vi fossero accese tante piccole lampadine di quelle che si mettono nel presepe o sull’albero di Natale… meduse, pesci strani… passavano veloci, anche questi come in tutto ciò che aveva letto, che aveva studiato, che lo aveva affascinato.
Un giorno o l’altro pensò, prenderò una barca e traverserò il breve braccio di mare che mi separa dall’arcipelago delle Isole Dahalak. Le voglio andare a vedere.
L’inferno, le chiamano perché chi è condannato a passare la sua vita nel penitenziario che hanno fatto in quelle isole, o impazzisce o muore.
Come l’Isola del Diavolo, come la Caienna, pensò. Ma pensò anche che alle Dahalak si producevano le più belle angurie di quella zona e questo gli fece venire sete, una sete del diavolo.
La mattina scese prestissimo con la valigia già pronta. Doveva proseguire per l’altipiano e raggiungere il suo posto di lavoro presso una miniera d’oro.
Uscì dall’albergo e, con la luce già viva del giorno appena iniziato, lo colpirono il silenzio e l’odore che stagnava nell’aria.
Si avviò verso la stazione ferroviaria mescolandosi alla folla che, urtandosi, si rubava, metro dopo metro, tutta l’ombra che le case a loro volta riuscivano a rubare al sole.
Sbattè contro un paio di gambe che uscivano di sotto uno sciamma che una volta, doveva essere stato bianco e che ora aveva il colore rossastro della terra.
“Meschn, guitana, meschin!” – la voce esalò dall’ammasso fetido e sudicio degli stracci insieme a un moncherino di mano.
E il moncherino era una sola piaga putrida.
Fece un passo indietro mentre lo stomaco gli si torceva.
“Meschin, guitana, meschin!” – continuava a lagnarsi il moncherino.
Lasciò cadere in terra, velocemente, qualche moneta e allungò il passo.
Lebbra, aveva visto la lebbra, un’altra faccia dell’Africa.
Aveva letto anche questo? Non se ne ricordava.
Accidenti a Pierre Loti e a tutti quei cretini che scrivevano di questo continente standosene seduti nei caffè di Parigi, di Roma o di Istanbul! Accidenti a loro e alla loro letteratura facile! Non era quella l’Africa. Quella era una stupida oleografia fatta di eroi che vincevano sempre, di donne che erano sempre belle, che profumavano sempre.
No! L'Africa, si sorprese a dire ad alta voce, era questa: col puzzo di sterco di cammello bruciato, il sole che ti spacca la testa, il cielo che pare piombo fuso, il lebbroso che chiede l'elemosina, il vecchio coloniale insabbiato con sei figli mulatti, le isole Dahalak coi detenuti che impazziscono. Coi suoi difetti, insomma. E come fai con le donne, con la donna alla quale vuoi bene, prima devi imparare a conoscere i suoi difetti! Per i pregi, a conoscerli c'è sempre tempo.Superati i primi , è fatta. Ti accorgi di volergli bene e tutto il resto viene da sé. Sorrise.
Si sentì più tranquillo, disteso, il primo impatto c'era stato. Superato? Poteva essere. Se ne rese conto quando il trenino che lo portava verso l'altipiano cominciò a inerpicarsi verso la montagna. Via via che saliva e via via che le orecchie cominciavano a scoppiettargli per il cambiamento di pressione dovuto alla diversa saltitudine, si accorse di sentirsi sempre più a proprio agio. Guardava di qua e di là dai finestrini verso la profondità dei crepacci che si inabissavano nel fondovalle sotto le ruote del convoglio e sorrideva ancora. Gli pareva di aver fatto quel viaggio Dio sa quante volte. Segno che ormai, a essere in Africa per lui era come essere a casa sua. Proprio come aveva sempre sognato, fin da ragazzo.
* * *
Tornava indietro . Erano passati undici anni. A sinistra, nella notte, brillò per un attimo, il faro di Capo Guardafui. Forse fu una impressione ma dal mare gli giunse una zaffata che sapeva di muschio, di sudore, di sterco di cammello bruciato. Odore d'Africa. Ma forse fu solo un'impressione, un'ubbìa del suo cervello malato. Troppo sole aveva preso in undici anni e ora ne risentiva. Lo sapeva benissimo che in Africa, lui, non sarebbe più ritornato.
Ormai era finita, finita per sempre.Affondò gli occhi nella notte."Laggiù - pensò - "passa l'equatore termico... cinquanta gradi all'ombra quando va bene, qualche volta anche di più. Roba da lessare il cervello".Ma rabbrividì . Era freddo, il freddo della notte, o il freddo che dà la sensazione di qualcosa che è finito, finito per sempre?
Carlo Fontani
(Mai Taclì N. 2-1978)