Quando guardo Roma di notte,
dal Pincio o dal Gianicolo,
quando cielo e città gareggiano
a chi possiede più stelle e vince la città
con le sue costellazioni al technicolor;
quando, ai Fori Imperiali, odo la voce dei secoli
levarsi solenne dai marmi;
quando all'Esedra o piazza Navona,
a San Pietro o piazza del Popolo,
innanzi a cento fontane e cento monumenti,
nei musei o in via Margutta, la luce dell'arte m'inchioda
in muta commozione, allora non vorrei lasciarti più,
Madre di popoli, perché mi sento anch'io tuo figlio.
Ma quando divento uno dei chicchi
del grappolo umano che trabocca dalla porta di un filobus,
o quando son dentro, accaldato e pressato,
mentre un acre puzzo di sudore
m'offende le nari, allora l'anima assetata di spazio
torna alle sterminate solitudini della mia Africa.
Quando l'auto che mi trasporta rimane imbottigliata,
e d'improvviso, assordante, espolde il suono impaziente
di cento e cento clackson, allora l'anima fugge
ai bassopiani solitari
percorsi da carovane sonnolente di dromedari.
Quando nel mio letto non trovo riposo
perché, all'appartamento attiguo,
una delle tante provinciali, giunte a Roma
col marito impiegato al ministero,
sbraita contro la sua «carrettata» di figli,
o quando, nell'appartamento soprastante,
altri bambini fanno il «fulmine», e temo che crolli il soffitto,
allora sogno la mia villetta d'Asmara
stretta nell'abbraccio cremisi delle bougainvillee.
Quando, per tutta la giornata, a Foce Verde
grosse bilance scendono e salgono dal mare
eternamente vuote, penso che, nel pescoso Mar Rosso,
porterebbero su tonnellate di ballonzolante preda d'agente.
Quando, ad Ostia o Fregene, un fitto carnaio brulicante
si contende un fazzoletto di sabbia,
e per passare occorre scavalcare,
torno ancora alla spiaggia senza fine di Gurgussum,
ove eravamo spesso soli, il mare ed io.
Quando osservo le nostre campagne divise in quadratini
dispuntati metro a metro in interminabili liti di confine,
penso alle fertili piane di Mai Ceu e di Cobo,
che vanno oltre l'orizzonte e
chiedendo solo braccia di contadini.
Quando, di luglio o d'agosto, le pietre della città
s'arroventano talmente che si potrebbe fare con esse
là «burgutta», o quando, d'inverno,
si gelano le mani ed il cuore, e piove per giorni e settimane,
e pare che il sole non debba più camparire,
allora torno alla città del «Nuovo Fiore»
chiusa in un trionfo d'eucalipti.
Ivi non manca mai il sole
al quotidiano appuntamento,
ivi non fa mai troppo caldo o troppo freddo,
in quella terra benedetta, è sempre primavera.
Roma, giugno 1960
Oscar Rampone
(Mai Taclì N. 4,5 -1988)