L’ETIOPIA CENNO STORICO

Tratto dalla Guida del T.C.I. Milano 1938.A cura del Mai Taclì (Redazione)

1-LA PREISTORIA (900 a.C. 300-400 d.C.)

La mancanza di esplorazioni archeologiche e storiche rende oscurissimo il più antico passato dell’Etiòpia. In Somàlia si rinvennero strumenti di pietra assai arcaici, che sembrano rimontare a epoche in cui le condizioni am­bientali dovevano essere assai diverse dalle presenti; manca, però, ogni indizio circa le popolazioni che di essi servivansi. Elementi antropologici e filologici mostrano che nella vasta regione etiopica dovettero vivere razze umane assai disparate, Pigmei, Negri di ceppo Nilotico, Negri di ceppo Bantu, Cu­sciti: questi ultimi finirono con l’avere il sopravvento in grandissima parte di essa.

Gli Egiziani ebbero commerci con l’Etiòpia, sia per via di terra, giun­gendo nelle aurifere regioni d’occidente, sia per il Mar Rosso; e non è escluso che dominassero anche su qualche punto della costa. Tuttavia, poco si può ricavare sui popoli del paese dai loro documenti, monotone ripetizioni di fatti analoghi, stemperate in divagazioni di carattere religioso. Ben altra importanza ebbero invece i rapporti coi Sud-Arabi, i quali, dotatisi, assai per tem­po, di una civiltà superiore, andarono concentrando nelle loro mani i traffici tra il Mar Rosso, il Golfo di Aden e il bacino del Mediterràneo. Naviganti au­dacissimi, sciamarono lungo la costa africana, spingendosi a S fin verso Sofàla, a N fin oltre il Golfo di Zula. Fermatisi sulla riva di questo e del Samhàr, col tempo risalirono le valli, raggiunsero e scavalcarono l’altipiano eritreo, vi fondarono stabilimenti commerciali e colonie. Queste, per secoli, dipesero dai re dell’Aràbia Meridionale, specialmente dal re di Sàba: più tardi, si resero indipendenti, a quanto sembra in forma federativa, spettando l’egemonia a un nucleo della tribù degli Habasciàt. venuto dalla costa araba di Lo- héya. Da questi il nuovo Stato prese il nome di regno degli Habasciàt (Abissinia), che sembra sia sorto non dopo il III o IV sec. a. C.

  • Sud-Arabi migrati in Africa, sebbene non appartenessero alla parte più progredita e civile della regione avita, erano assai più avanzati degli in­digeni africani; a essi l’Etiòpia deve gran parte della sua civiltà. I Sud-Arabi importarono il cavallo, il dromedario, la pecora, molte varietà di vegetali com­mestibili, più progredite armi, migliori sistemi di coltivazione, la scrittura, la casa quadrata o rettangolare in muratura, degradata nel moderno hedmò, in contrapposto alla capanna circolare di ramaglie ecc.

Dal III sec. a. C. un’altra corrente di civiltà si sviluppò, la egizio-ellenica, grazie alle esplorazioni e ai commerci avviatisi coi primi Tolomei e continuati fino alla caduta della signoria bizantina in Egitto. Gli assaggi di scavi in Aduli ci mettono di fronte quasi a una città provinciale egiziana nel pe­riodo romano e bizantino. La lingua greca fu conosciuta dai re d’Axiun, e usata nelle iscrizioni dei monumenti e delle monete.

2-L’EPOCA CRISTIANA LA PRESSIONE ISLAMICA (400-1000 d.C.)

E coi commerci greco-­egiziani penetrò in Etiòpia il cristianesimo. Un ex-schiavo Siro, Frumenzio o Salamà, raggiunto un alto grado alla Corte, ottenne il libero culto della nuova religione e la conversione del re Ezanà. Più tardi vennero missionari, pure d’origine Sira, monofisiti, che la tradizione chiama Libanòs o Mattà eNove Santi.

 Notevoli monumenti, i più vetusti dei quali (per es. Iehà) sembrano risalire c. al vi sec. d. C., mostrano che, almeno nella casta dominatrice, la civiltà aveva raggiunto un grado relativamente elevato, in modo da non sfigurare nel quadro delle civiltà antiche d’Oricnte; Axùm, Iehà, il Cohàito, Aduli, il Cascasse sono i principali antichi centri oggi conosciuti.

La politica degli Habasciàt aveva due tratti essenziali: tendeva al Nilo e conservava un vivo interessamento nelle cose sud-arabiche. L’espansione verso il Nilo portò a conflitti coi Bégia e col regno di Méroe: questo spari appunto sotto i colpi d’un re Axumita, della fine del III o del principio del IV sec. d. C., che lasciò la trionfale sua iscrizione nella distrutta capitale nemica; sembra che Axùm fosse persino alleata di Paimira contro i Romani. L’interessamento alle cose sud-arabiche provocò armati interventi degli Abissini d’Àfrica nelle guerre d’oltre mare, e più o meno temporanee loro conquiste in Aràbia. L’ultima spedizione al di là del Mar Rosso fu provocata da perse­cuzioni anti-cristiane nello Iémen, promosse dall’elemento giudaico, influentissimo alla Corte di Zafàr. Il re Calèb (a. 525) potè assoggettare l’Aràbia Meridionale e venir contato fra i grandi monarchi del mondo. L’Impero Bi­zantino ne sollecitò l’alleanza contro 'i Persiani. Una spedizione abissina si spinse fino nello Hegiàz. Ma, alla vigilia d’una nuova guerra fra Bisànzio e Ctesifonte, i Persiani abbatterono la signoria etiopica in Aràbia, s’insedia­rono nello Iémen e spinsero navi predatrici nel Mar Rosso.

Il colpo fu assai duro per Axùm. E presto altri seguirono. Sul Nilo si costituì un nuovo regno, detto di Sóba, con centro in Alòa, non molto lungi dall’attuale Khartoùm. I musulmani conquistarono non pur tutta l’Aràbia, ma anche l’Egitto, così colpendo gravemente i rapporti fra Etiòpia e mondo civile cristiano; per di più, non tardarono a insediarsi nelle isole Dàhalac, forse a Massàua, per schiacciare la pirateria, che minacciava persino Mecca, e resero impossibile la vita di Aduli e degli altri centri costieri. L’Abissinia, costretta a ripiegare violentem. su se stessa, rapidam. decadde. Una vittoriosa irruzione dei Bégia, impadronitisi dell’altipiano Eritreo, ne accelerò la rovina. Per secoli essa rimase isolata e profonde tenebre ne avvolgono le interne vicende: secoli durante i quali la sua costituzione subì radicali mutamenti, divenendo quale era alla ripresa delle relazioni con l’Europa.

Molto verisimilm., le colonie sud-arabiche d’Àfrica dettero origine alla formazione d’uno Stato a carattere aristocratico, una classe dominante d’origine semitica e una assai più numerosa classe di vassalli d’origine cuscitica e anche nilotica. Incroci erano inevitabili; e quanto meno abbondanti erano i rinsanguamenti da oltremare, tanto più sensibile dovette essere l’influsso etnico indigeno sull’elemento d’origine forestiera. Chiuso lo Iémen, il vecchio fondo cuscitico ebbe libero gioco. Come più tardi in Egitto l’elemento arabo assimilò, sebbene tanto meno numeroso, l’elemento autoctono sino a farne sparire la lingua, il copto, così in Abissinia la lingua dei signori prevalse ed eliminò i parlari dei vassalli, pur subendone talvolta l’influsso; ma nei riguardi „ etnici, prevalse invece il tipo della razza più numerosa, la cuscitica. L’Abissinia potè essere definita il paese dei Cusciti a lingue semitiche, con più o meno appariscenti sopravvivenze semitiche. Ma con l’isolamento e col risollevarsi dell’elemento cuscitico la civiltà si andò abbassando: stata sempre civiltà di minoranza, cedette in gran parte di fronte alla barbarie della maggioranza; persino l’uso della moneta coniata sparì. Infine, il vecchio regno d’Axùm si era sempre esteso verso N e verso O, limitandosi, sugli altipiani, all’Eritrèa, al Tigrài, a regioni circostanti. Chiuso ormai il N e l’O, gli Abissini, quando ripresero forza, si diressero a S, ove mancavano organizzazioni statali che loro si opponessero: le vie del S, del resto, già erano note, perchè almeno fin dal sec. v annue carovane movevano dal Tigrài verso le regioni pro­duttrici dell’oro, certam. l’Uóllega, mentre fin dall’età anteriore all’era cri­stiana altre carovane, movendo da Deire e forse da Tagiura, frequentarono

  • 1 Aussa e la Regione Fluviale di Iside (Potamia Isi/Hs), senza dubbio lo Ha- ràr. Ai principi del sec. X il regno d’Abissinia è in piena ripresa; ha esteso la sua signoria fino su Zéila; ha trattati d’amicizia coi capi dello Iémen e svol­ge con la costa araba attivi commerci. Senza dubbio, appunto frutto di que­sto movimento d’espansione verso S è l’insediamento di colonie militari, in­caricate di tenere a posto le popolazioni assoggettate. Una di esse deve avere dato origine all’attuale popolazione della città di Haràr, vera isola di lingua straniera in mezzo a genti dalle lingue cuscitiche, e la sua lingua semitica, più che aU’amarico, si accosta a quelle del X. A tali colonie sono state ascritte notevoli tombe, trovate nello Hararino, che, se da un lato rammentano i mo­numenti megalitici (somiglianza che ha dato origine alle più svariate ipote­si), nella sostanza riproducono, imbarbarito, un tipo di tomba axumita.
  • 2 Nell’Hararino, presso Dire Dàua e altrove, sono state trovate anche notevoli pitture rupestri: non ne è stato ancor fatto uno studio comparato con quelle delle grotte dell’Acchelè Guzài orientale, e ogni ipotesi su esse oggi sarebbe avventata. Altre colonie militari furono insediate a sud dell’Auàsc: col tempo, abbandonate a se stesse per un restringimento delle frontiere abissine, si amalgamarono con le locali popolazioni Sidàma, dando origine ai più antichi gruppi dei Guraghè, i quali mostrano particolari affinità linguistiche con quello dello Haràr. A queste colonie a S dell’Auàsc sono state attribuite numerose stele trovate fra i Guraghè e i Sóddo, le quali arieggiano, imbarbarendo, gli obelischi axumiti, e a volte ne riproducono l’ornamentazione. Sembra che le popolazioni locali, ammirate di quel lavorare la pietra, lo imitassero adottando la pietra, anziché il legno, nello scolpire le tradizionali loro statue funerarie, stele antropomorfiche, stele falliche; monumenti che sono stati trovati in grande quantità sin giù nelle regioni del L. Margherita, e che talvolta addimostrano una perizia notevole. Altro risultato dello stabili­mento di queste colonie militari, le quali senza dubbio irraggiavansi tutto all’intorno in sanguinose razzie, par essere stato un largo movimento migra­torio di popolazioni locali, che, in cerca di nuove sedi più sicure, si andarono spostando verso S, imponendosi a Niloti, a Galla, a Bantu.

3-IL MEDIOEVO (1000-1400)

Verso la fine del x sec. l’Abissinia fu sconvolta da un’invasione barbarica, condotta da una regina, che la coperse di rovine: il nome della regione donde essa mosse rimane incerto. Verso il 1149 si ebbe un mutamento di dinastie; salì al potere la famiglia Zaguè, di razza Agau, del Làsta, e con essa il centro dello Stato, che da gran tempo aveva abbandonato Axìnu (vuolsi fosse per qualche tempo presso il L. Hàic), fu a Rohà, nel Làsta. Gli Zaguè riuscirono a riattivare con un certo carattere di stabilità i rapporti col mondo cristiano, ottenendo, intorno al 1187, dal sultano Saladino importanti concessioni di chiese e di stanze a Gerusalemme e a Betlemme: la cosa doveva avere notevoli conseguenze per lo svolgimento della letteratura etiopica, di­venendo Gerusalemme un centro di cultura per i pellegrini, e di traduzione di scritti dall’arabo in abissino. Inoltre, a un re Zaguè, che la chiesa celebra come santo, Lalibelà, vengono dalla tradizione attribuite le notevoli chiese monolitiche di Rohà, città che passa ad assumere lo stesso nome del re : sono grandi blocchi di montagna, isolati con profonde trincee, dotati di facciata, internam. scavati a più navate. L’origine vera di questi singolari, importanti monumenti, e le correnti non abissine che li inspirarono, non sono ancora state studiate.

La dinastia Zaguè fu rovesciata verso il 1270 da un ribelle nativo del- l’Amàra, la cui famiglia vantavasi di discendere dalla regina di Sàba e da Salomone: i titoli incisi nelle iscrizioni degli antichi re d’Axùm avevano presto condotto a credere Sàba situata non in Arabia, bensì sulle frontiere etiopiche; gli Abissini cristiani avevano a se stessi applicata la leggenda di quella regina, diffusissima in tutto l’Oriente (ne parla persino il Corano), e numerose stirpi abissine collegarono con essa le tradizioni sulle proprie origini. Soltanto nel xvn sec. sorse la leggenda che gli Zaguè «restituissero* pacificamente ai Salomonidi il potere, per l’intervento del santo Tecalà Halmanòt, rimunerato con un terzo delle terre del regno. Così l’egemonia ritornava a gente semitizzata, il cui parlare, l’amarico, divenne la lingua ufficiale dello Stato, rimanendo l’etiopico (già lingua morta) la lingua liturgica e letteraria, come il latino nel nostro medioevo. Fondatore della nuova dinastia amara fu Iecunò Amlàc (1270-85); chi ne consolidò e allargò i domini fu re Amdà Isiòn (1314-40).

4-IL RINASCIMENTO  (1400-1800) (in due parti)

(Prima parte)

Il maggiore sovrano della dinastia fu Zarà Iacòb (1433-68), non solo per imprese militari, ma anche per la sua politica. Base di questa era il convincimento dello strettissimo legame fra Cristianesimo. e Abissinia; qualunque cosa rafforzasse o indebolisse il primo rafforzava o indeboliva la seconda. Perciò, lotta accanita contro tutti i fattori anticristiani, musulmani, giudaici, pagani; lotta senza quartiere contro le sette eretiche, salvo a trovare accomodamenti verso i dissidenti troppo forti, come fu per il caso di Debrà Bizèn e del suo partito, che egli fece rientrare nell’orbita della chiesa ufficiale accettando la principale delle sue tesi, cioè la obbligatorietà della celebrazione del sabato; vivace azione per inculcare al popolo i principi cristiani, arrivando a imporre, sotto pena della confisca dei beni, l’istruzione religiosa obbligatoria; aperto favore verso la cultura, agevolando traduzioni di opere dall’arabo, trascrizioni di codici, scrivendo egli stesso trattati e poesie. Nel tempo medesimo, drastica lotta contro quanto, neutralizzando o affievolendo il potere del re, potesse indebolire la resistenza cristiana contro la minaccia forestiera; ogni sforzo per accentrare nelle mani del re il potere che nelle province era tenuto dai grandi feudatari, troppo spesso pericolosi; perfino un tentativo di governare tutto il paese preponendo alle province le figlie del re. TI tentativo non riuscì, come in generale fallì l’intento di rafforzare il potere centrale a danno del locale: l’Etiòpia era troppo immatura. Grazie al ricordato favore del re Zarà lacòb, la letteratura etiopica raggiunse un certo splendore.
Fra i libri tradotti dall’arabo, quello dei miracoli di Maria (spesso racconti d’origine occidentale) fu illustrato da molte figure, dovute forse a un artista europeo, certam. a un artista influenzato da modelli europei, le quali ebbero gran peso nel successivo svolgimento dell’arte abissina. Questa, come è noto, è essenzialmente. una derivazione dal copto bizantino, con peculiarità proprie. La più caratteristica è la raffigurazione degli esseri buoni di fronte, quella dei cattivi per profilo: probabile adattamento abissino delle figure egiziane, che i pellegrini e gli eremiti trovarono dipinte, sempre di profilo, sulle pareti dei templi e degli ipogei, e che per loro non potevano rappresentare se non esseri demoniaci.
Fissata nel Sud la sede della nuova dinastia (ora in Erèr, ora in Bararà, ora in altri luoghi), la vita politica del regno fu assorbita dalle contestazioni coi nuovi vicini. Per circa due secoli e mezzo la storia dell’Abissinia è principalmente la storia delle sue guerre con l’islamismo, che aveva fatto progressi importanti. Nel N l’arcipelago delle Dàhalac divenne un centro islamico notevole; luogo di relegazione politica pei nemici dei califfi di Bagdàd, si diceva che gli abitanti avessero appreso poesia e diritto da poeti e giureconsulti arabi eminenti; divenuto sultanato autonomo, fu coinvolto nelle vicende di Zebìd, città costiera dello Iémen, ove riuscì a imporsi, per quasi due secoli, una dinastia d’origine abissina. Bellissime iscrizioni sepolcrali in scrittura cufica ancor oggi dimostrano che, per quanto le Dàhalac dagli Arabi fossero a volte considerate un inferno di cui il sultano era degno custode, la civiltà araba vi raggiunse un certo flore. A S, Zéila, che nel sec. X è ancora cristiana, più tardi diventa la porta per cui l’Islàm irrompe nell’interno, raggiunge l’orlo orientale dello Sciòa, vi fa costituire un principato musulmano, si estende a S dell’Auàsc e vi viene accettato almeno dalle famiglie dominanti. Così una fascia di principati musulmani si forma a E e a S dello Sciòa. L’urto fra musulmani e cristiani diveniva inevitabile. Il re Amdà Tsiòn riesce a sconfiggere i principi deU’Ifàt e dcll’Hadià, spingendosi, sembra, fino a Zéila, e ritirandosi poi, onusto di prede. La lotta continua accanita sotto i suoi suc¬cessori; a mano a mano, il principato dell’Ifàt è costretto a retrocedere verso E, a scendere dai monti nelle bassure dell’Auàsc, ove assume il titolo di sultanato dell’Adàl. Il 26 die. 1445 re Zarà Iacòb in una grande battaglia uccide il sultano Scehàb ed-Din Ahmed Badlài; le frontiere abissine vengono portate a S fino airUébi; e l’Adàl per oltre mezzo secolo paga duram. le vittorie e le razzie più volte ottenute in Abissinia.
Contemporaneam. altre regioni venivano a far parte del regno. Re Aradà Tsiòn potè annettere Goggiàm e Damòt. Ieshàc (1414-29) non soltanto conquistò sulle tribù giudaiche del N (Falascià) l’Uogherà, ove la chiesa di Ieshàc Dabr ancor oggi rammenta le sue gesta, ma fu celebrato per imprese nel S, nell’Ennària, fra gli Zengerò, nell’Uolàmo, nel Gamò, sino fra Cóira o Badditu a S del L. Margherita. E se Zarà Iacòb non riuscì a domare le ribellioni dei Falascià nello Tsellemtì e in altre province, Marcòs, che per conto del suo successore Baedà Mariàm ( 1468-78) governava il Beghemedèr, fiaccò i Falascià del Semièn.

 (Seconda parte)

La tragedia fra musulmani e cristiani scoppiò nuovam. con la massima violenza, sotto il regno di Lebnà Denghèl (1508-40). Un cavaliere dell’Adàl, Ahmed ben Ibrahìm, soprannominato dagli Abissini il Gragn’ (mancino), il quale contrapponeva la sua autorità a quella del sultano, passato in Haràr, con una serie di sanguinose vittorie sembrò portare l’Abissinia all’ultimo tracollo: tutto il paese fu invaso, messo a fuoco e sangue, coperto di rovine; ancor oggi la tradizione ne ricorda le distruzioni, nelle quali buona parte dell’antico patrimonio artistico e letterario d’Etiòpia sparve per sempre. Soltanto nel Tigrài, e sovratutto nel Tigrai il, Gragn’ non pervenne a fiaccare le resistenze. Ma la lotta pareva ormai deflnitivam. decisa a favore ddl’islàm. L’improvviso apparire d’un piccolo esercito Portoghese (400 uomini che, agli ordini di don Christovào da Gama, con una marcia fantastica riuscirono a raggiungere il capo musulmano presso il L. Asciànghi) mutò di colpo la situazione; e, se in una battaglia presso Uoflà il capitano portoghese fu sbaragliato e ucciso, poco appresso Ahmed ben Ibrahim cadde morto, a sua volta, con un’archibugiata a Zantarà, sul confine SE del Dembeà. Disperso a tanta lontananza dalle sue basi, l’esercito musulmano subì perdite crudelissime. Il cristianesimo fu salvo.

Questo intervento dei Portoghesi era connesso con la loro comparsa nel Mar Rosso contro i Turchi, dopo la fortunata spedizione di Vasco da Gama al Capo di Buona Speranza e alle Indie. Era stata preceduta da una missione della reggente Elleni, durante la minorità di re Lebnà Denghèl, al re di Portogallo, e, in risposta, da una legazione Portoghese, che rimase in Abissinia dal 1520 al 1526, e il cui cappellano, Francisco Alvarez, ci lasciò un’assai importante relazione. Prima ancora che il Capo di Buona Speranza fosse superato, il re Giovanni II aveva mandato un suo scudiero, Pedro da Covilhào, per l’Egitto alla ricerca del Prete Gianni e d’alleati contro i musulmani: il da Covilhào aveva potuto raggiungere la terra del negus, ma non più uscirne. E durante il sec. xv Abissini erano giunti in Europa, Europei in Abissinia, diffondendosi così le prime notizie sul paese.

L’estrema debolezza in cui il lungo conflitto lasciava Abissini e musulmani, lo stato d’interna disgregazione, frutto delle invasioni, nelle regioni cristiane, il grande immiserimento generale facilitarono un altro cataclisma: un popolo pastore ai primi gradini della civiltà, ignaro ancora dei metalli e del cavallo, contenuto fino allora al di là delle frontiere del SE, si rovesciò per le non più difese frontiere dell’Uébi e quasi sommerse buona parte dello Hararino e dell’Abissinia meridionale. I Galla si presentarono dapprima come razziatori, prestissimo come conquistatori e occupatori del suolo. Il loro dilagare, veemente e rapidissimo, non ha riscontro nelle invasioni barbariche dell’Impero Romano. Il sultano di Haràr fu costretto a trasportare la sua capitale all’Aussa, fidando nella protettrice cinta di deserti. Strascichi delle guerre coi musulmani, in una delle quali perdette la vita re Galaudeuòs (1540-59), i torbidi interni che squassarono il breve regno del successore Minàs (1559-63), le contese contro il giovane re Malàc Sagàd (1561-97) nei primi anni, resero anche minori le resistenze.

Malàc Sagàd, un’altra delle grandi figure della storia etiopica, respinse con una battaglia in Addì Corò i Turchi, che tendevano a estendere il loro impero sull’Abissinia, potè conquistare il Semièn e regioni a O del L. Tàna, riportò le armi abissine fino alle porte del Càffa, ma non valse a contenere l’irrom­pere dei Galla, che ih pochi decenni occuparono buona parte dello Hararino, dello Scióa, dell’Amàra. Loro tribù si spinsero lungo la catena orientale sino a toccare lo Uoggeràt, senza però potere sfondare gli accessi al Tigrài; loro colonne si spinsero versò O fino a toccare i Bèni Sciangùl; la carta geografica dell’Etiòpia mutò aspetto. Si aggiunga che in breve i Galla riuscirono a infiltrarsi anche nel territorio rimasto schiettam. abissino, sia fornendo ai capi Abissini milizie volontarie e servi più fidati degli Abissini perchè non legati a locali camarille, sia con le loro donne, che, schiave, davano figli ai vincitori, sia anche ospitando fuggiaschi capi ribelli (tra essi vi fu persino il futuro re Suseniòs !) e così acquistandosi favori. Naturalm. il bassissimo livello cultu­rale Galla, associandosi alla depressione generale prodotta dalle lunghe guerre, fu causa (li nuovo generale abbassamento della civiltà abissina.

Altra causa di disordini e di decadenza, le controversie religiose. Il soc­corso dei Portoghesi contro Gragn’ non dette a essi, nel campo religioso, i risultati sperati: re Galaudeuòs finì col rifiutare nettam. la sottomissione alla Chiesa Romana, e il vescovo Andrea de Oviedo, inviato in Etiòpia, vi morì presso che isolato. Una ripresa di attività missionaria si ebbe mezzo secolo dopo; e il padre Pero Pais, finissimo conoscitore degli abitanti, esperto nelle lingue locali, intelligente, duttile, vi conseguì risultati assai notevoli, accat­tivandosi l’animo di re Suseniòs (1607-1632) e di parecchi dei maggiori personaggi dello Stato. Il re s’indusse perfino a far atto di obbedienza al Ponte­fice. Il successo, però, non si otteneva se non attraverso fieri contrasti e resi­stenze. E la situazione si andò capovolgendo con l'affluire di nuovi missionari senza locale esperienza, con la morte del Pais, con l’arrivo del patriarca Affonso Mendes, dotto certam. ma inadatto alla bisogna. Una completa disconoscenza della psicologia abissina e delle situazioni del paese, l’eccessivo rigore nel reprimere e nell’opprimere quanto non fosse strettamente. conforme al cattolicismo, una violenza che si può spiegare con l’essersi allora nel pieno fiorire dell’Inquisizione, provocarono ribellioni di regioni e di capi, l’uccisione, in battaglia o sul patibolo, di membri della famiglia reale e di alti dignitari, che, per convinzione o per coprire bramosie di potere, levavansi in arme a prò del monofìsitismo. Per oltre un decennio l’Etiòpia fu dilaniata da così fatte contese. Alla fine, dopo una troppo sanguinosa vittoria sui monofìsiti ribelli del Làsta, re Suseniòs s’indusse a ristabilire la libertà dei culti secondo le antiche usanze, e a ritirare tutti i provvedimenti a prò dei cattolici. Pochi mesi dipoi egli morì; il cattolicismo fu proscritto e i missionari espulsi: in fondo, reca stupore che all’ordine di espulsione non ne seguisse un generale massacro. Dall’episodio cattolico si ebbero due conseguenze durature: l’Abissinia si chiuse agli stranieri, i pochi che osarono varcarne la frontiera paga­rono assai cara l’audacia, e soltanto un secolo e mezzo più tardi lo scozzese James Bruce potè penetrarvi senza danno. In secondo luogo, il vivace fermento delle discussioni teologiche fra cattolici e monoflsiti fu origine di altre non meno vivaci, non meno ostinate, fra il clero monofisita, discussioni che guadagnarono la Corte e i grandi. Per oltre un secolo la Corte reale abissina parve una riduzione africana della Corte Bizantina: mentre i Galla premevano da ogni parte, mentre il potere reale sprofondava, la Corte era assorbita dalle più sottili disquisizioni stilla natura di Cristo.

Re Fasiladàs (1632-67) stabilì la capitale in Góndar: a lui e al suo successore Iohànnes (1667-82) si debbono le costruzioni in muratura di Góndar, che a torto si attribuirono all’opera dei Portoghesi. Ivi si era al sicuro da improv­vise irruzioni dei Galla. Ma Góndar era troppo eccentrica, perchè la sua azio­ne potesse giungere spedita ed efficace nelle province, cosicché si rese sem­pre meno effettiva la dipendenza del grandi feudi (Goggiàm, Scióa, Làsta, Tigrài ecc.) dal re e l’autorità regale in Góndar declinò rapidamente. Iasù I (1682-1706), l’ultimo re di qualche importanza, pervenne ancora a guidare una spedizione nel S, fino nell’Ennària. Egli morì assassinato e nell’isola di Metrahà ne rimane la tomba. Anche altri suoi successori perirono di morte violenta. I partiti, le camarille di Corte e di chiesa andarono prendendo il sopravvento. E presto apparve che in tanto il re poteva restare sul trono in quanto aveva protettori. Così fu, per esempio, per Iasù II, sotto l’egida dei suoi congiunti materni, detti Quaragnà, perchè nativi del Quarà. Ogni grande capo sentì che, all’ombra d’un re evanescente, poteva esercitare il supremo comando. Ras Micaèl, del Tigrài, non esitò a fare strozzare re Ioàs (1755- 69), allorché vide che il monarca tentava sottrarsi alla sua morsa. Di qui conflitti e guerre fra grandi capi, approfittandone particolarm. l’elemento Galla, che era forte nelle bande al seguito del re. Mentre nelle province i grandi feudi, cui si erano aggiunti il Semièn e lo Uolcaìt, divenivano di fatto pressoché indipendenti, e dei tutto indipendenti si mantenevano i Galla dell’Amàra, capi Galla riuscirono a imporre la loro supremazia a Góndar e sul Beghemedèr cui praticamente. si riduceva il regno. Primo di essi, Alì Farìs: seguirono Gugsà e altri. Nei primi decenni del sec. XIX tutto faceva credere allo sgretolamento dell’Abissinia in parecchi Stati indipendenti e nemici.

5-L’EPOCA MODERNA (1800-1890)  (in due parti)

(Prima parte)

Verso la metà del sec. XIX comandava sul Beghemedèr e faceva da protettore al re, il Galla ras Alì, giovane, debole, proclive all’Islàm; sua madre Menèn, energica, governava da Góndar come moglie del re Sahlà Denghèl. Nell’estremo disordine del paese si fece largo un nativo del Quarà, un tal Cassà. Dapprima affidato a un convento, ove il suo spirito ricevette un’indelebile impronta di misticismo, poi, dopo il massacro dei conventuali in una delle consuete guerriglie, passato a vita brigantesca, si era fatto notare per spietato coraggio e per qualità direttive. Costituitosi un piccolo esercito, rapidamente pervenne ai primi posti: vinse e uccise ras Gosciù, capo del Gog- giàm; si sbarazzò di Menèn e di ras Alì, che riparò fra gli Uollo; vinse e catturò deggiàc Ubiè, che al nativo Semièn aveva aggiunto il Tigrài, strappandolo ai Sabagadis, e l’Eritrèa. Raccolta così nelle mani buona parte d’Abissinia, rifiutò il consueto paravento d’un re fantasma di stirpe Salomonide, e si proclamò re dei re, col nome di Teodoro, cioè del leggendario re che alla fine dei giorni verrà a rimettere ordine nel mondo sconvolto. Teodoro fu uomo straordinario. Sotto altra forma, ritornò ai concetti fondamentali di re Zarà Iacòb: all’unificazione dello Stato provvide conquistando lo Sciòa, facendo una guerra senza quartiere ai Galla ddl’Amàra, e dovunque nominando capi suoi; al consolidamento del cristianesimo mirò con una rigida politica antimusulmana, che gli era inspirata anche dal sentimento dell'aggravarsi d’un pericolo alle frontiere, ove, da Metémma a Càssala e a Massàua, attaccavano gli Egiziani. Per di più, divisava molte riforme e innovazioni ecclesiastiche, militari, economiche. Ma troppo profonda e durata troppo a lungo era l'anarchia del paese perchè questo rispondesse. E il ripullulare delle difficoltà, il continuo risorgere di ribellioni, andarono talm. inasprendo il carattere del re, già assai fiero per natura, che gli ultimi anni di lui trascorsero come in un delirio di sangue. Quasi tutti lo ab­bandonarono. Precipitavano intanto gli avvenimenti della politica estera, cui Teodoro era assolutam. impreparato. Fra Inglesi e Francesi egli preferì i primi, anche perchè i secondi, protettori dei cattolici che avevano riprese le missioni in Abissinia, gli erano sospetti; con l’aiuto dell’Inghilterra sognava vincere i Turchi e liberare Gerusalemme. Vari incidenti lo turbarono, nella sua inesperienza diplomatica e nella sua mente ottenebrata: egli fece impri­gionare quanti Inglesi fossero presso lui, missionari protestanti e console; e altrettanto fece con l’inviato del Governo Inglese, incaricato di trattarne la liberazione. L’Inghilterra ricorse alle armi; e una spedizione, dotata dimezzi che parvero fantastici, raggiunse Màgdala, ove il negus si era asserragliato coi residui dei suoi fedeli. Vista impossibile la lotta, Teodoro si uccise (25 apr. 1868). Gl’Inglesi non ebbero quasi perdite umane; si disse vincessero * con la cavalleria di San Giorgio ».

(Seconda parte)

Ritirandosi, gl’inglesi lasciarono l’anarchia. Il capo del Làsta, Gobaziè, ne approfittò per farsi gridare re dei re, col nome di Taclà Ghiorghìs; ma, quando sorse contro un suo rivale, Cassà capo del Tembièn, fu vinto presso Adua, acciecato e relegato su un’amba (11 lug. 1872). Cassà si proclamò re dei re col nome di Iohànnes. Per unificare il comando, costrinse all’obbedien­za il re dello Sciòa, Menelìc, e il capo del Goggiàm, ras Adàl; non ebbe però la forza di sostituirli con gente a lui ligia, e piuttosto contò sulle loro discordie, esacerbate dall’avidità di monopolizzare ciascuno per sè le pingui razzie contro i Gàlla del S e il Càffa; anzi, al capo del Goggiàm egli conferì il titolo di re, col nome diTaclà Haimanòt. Intanto maturava la minaccia intravvista da Teodoro: gli Egiziani tentavano la conquista dell’Abissinia e delle sorgenti del Nilo, lohànnes li vinse in una prima campagna a Gudà-guddì, li rintuzzò definitivam. a Gura. Per odio di razza e di religione, intraprese, insieme con Menelìc, una serie di guerre feroci contro gli Uollo e le limitrofe po­polazioni Galla: ne impose il passaggio forzato al cristianesimo e tra i convertiti fu un capo, l’imam Mohammed All, che prese il nome di Micaèl, il futuro ras. Ma presto un’altra gravissima minaccia musulmana sorse alle frontiere settentrionali e occidentali: il formidabile movimento Mahdista, che obbligò gli Egiziani a sgomberare gradatam. dal Sudàn. Per agevolare il ritiro della guarnigione di Cassala, un esercita agli ordini di ras Aitila, in seguito ad ac­cordi con gl’inglesi, si avanzò fra i Baria, e affrontò i Dervisci a Cuflt. Per altri accordi con l’Inghilterra l’Italia a sua volta occupava Massàua; e fra le istruzioni alle sue truppe erano quelle per una eventuale azione verso Cassa­la e il Nilo, azione che la caduta di Khartoùm rese impossibile. Lo sbarco de­gli Italiani fu male interpretato da re lohànnes, che non tardò a collegarlo con intrighi di re Menelic per sbalzarlo dal trono. D’altra parte, era assurdo pensare che truppe bianche potessero contenersi neH'isolotto adusto di Mas­sàua. E il graduale inevitabile espandersi degli Italiani portò a un urto con­tro il capo abissino dell’Hamasièn, ras Aitila. Egli assalì il fortino di Saàti, e sterminò a Dógali un battaglione che accorreva a sostegno degli assaliti. A sua volta l’Italia inviò in Africa un piccolo esercito, comandato dal gene­rale di San Marzano. Re lohànnes scese ad affrontarlo, non osò assalirlo, e ripiegò sull’altipiano. Intanto i Dervisci, irrompendo da Metémma, avevano portato la distruzione fino al L. Tana. Per risollevare il suo prestigio, re lo­hànnes mosse contro i re del Goggiàm e dello Scióa, il cui contegno eragli più che sospetto: non potò fiaccare il primo, esitò ad affrontare il secondo, più forte, che del resto, molto abilm., si teneva fra lui e gl’italiani, e preferì la gloria d’una guerra santa. Ma, scontratosi coi Dervisci a Metémma (11 mar. 1889), fu ucciso.

6-LA PRESENZA ITALIANA (1880-1975) (in due parti)

(Parte prima)

Menelìc ne approfittò subito per farsi riconoscere re dei re, mentre l’Italia occupava Chéren e Asmara, e, in breve, dalla forza delle cose era portata allo storico confine del Mareb. Un accordo firmato a Ucciàlli avrebbe dovuto regolare i rapporti fra i (lue Stati, riconoscendo all’Italia una posizione privilegiata a compenso dei larghissimi aiuti dati al re dello Scióa. L’Italia si considerò come avente il protettorato sull’Etiòpia, e ne informò gli Stati Europei. Ma prestissimo sorsero gravi dissensi: anzitutto fu questione dei confini; prima che su questi si addivenisse a un principio d’intesa, fu questione del- l’art. 17 del trattato d’Ucciàlli, cioè dell’articolo fondamentale per il protettorato: esso nel testo italiano rendeva obbligatorio, nel testo amarico lasciava facoltativo per il re d’Etiòpia il servirsi dell’Italia nei suoi rapporti internazionali. Lasciate a se stesse, forse le due parti avrebbero finito con l’intendersi. Ma in Addis Abéba ebbero il sopravvento le correnti europee avverse all’Italia quale partecipe della Triplice Alleanza; e i veramente non credibili ondeggiamenti della politica italiana fra Menelic e ras Mangascià, capo del Tigrài, che, quale figlio ed erede di re lohànnes, sognava di abbattere il primo, fecero sì che tutti prendessero posizione contro l’Italia. Le ostilità colsero di sorpresa le autorità Eritree, assorbite da preoccupazioni circa i Dervisci; tut­tavia la rivolta di Bahtà Hagòs nell’Acchelè-Guzài fu domata, ras Mangascià fu battuto a Coatìt e a Senafè, il Tigrài occupato facilmente. L’Italia non sep­pe allora considerare adeguatamente il futuro; l’opinione pubblica, in un pe­riodo di profonda crisi economica, finanziaria, morale, era nettam. contraria a costose imprese d’oltre mare; i ministri discordi; il Governo Eritreo, mal valutando le possibilità belliche di Menelic, pensava poterlo vincere con poco più delle truppe indigene che già aveva sotto le armi. La comparsa delle avanguardie seioane al L. Asciànghi fu quasi improvvisa, e colse gli Italiani quasi alla sprovvista; la battaglia d’Amba Alàgi e l’assedio di Macallè dimostrarono la necessità di sensibili rinforzi bianchi, i quali capovolgevano il piano della campagna e imponevano ben altra preparazione logistica, che non poteva improvvisarsi. Appunto necessità logistiche suggerirono al geli. Baratieri una grande ricognizione dimostrativa verso il campo del negus in Adua; e un complesso di fatali circostanze la mutarono in una battaglia (1 mar. 1896), in cui il corpo di spedizione fu disfatto. L’I­talia non volle continuare nella lotta, e col trattato di Addis Abéba (26 ott. 1896) riconobbe la piena indipendenza dell’Abissinia, lasciando sospesa la questione dei confini: fu merito di Ferd. Martini se, poi, il confine Marèb- Bélesa ci restò.

La vittoria dette a Menelìc e al suo Stato una nuova importanza rispetto ai vari Stati d'Europa, che gareggiarono nel contendersene il favore. Già prima d’essere nominato re dei re, Menelik, proseguendo nella politica espansionista che aveva portato i suoi avi da capi del Menz a re dello Scióa, aveva conquistato i Guraghè, numerose tribù Galla, l’emirato di Haràr. Nel 1895 aveva egli stesso condotto una grande spedizione nell’Uolàmo.

I suoi generali: ras Gobanà, ras Darghè, ras Tesammà ecc. gareggiavano nello spingersi sempre oltre, a SE, a S, a O; furono raggiunti il Giuba, i L. Stefània e Rodolfo, il Nilo Bianco; e, se gli accordi con l’Inghilterra non consentirono agli Abissini di restare su quest’ultimo, lor venne pur sempre riconosciuto un impero quale l’Etiòpia non aveva forse mai avuto. Fatto importantissimo: tutte le nuove annessioni, vere colonie, erano dipendenza diretta del re dello Scióa, che le governava con uomini di sua scelta; esse, in ogni evenienza, lo rendevano di gran lunga il maggiore fra i grandi capi abissini.

 (Parte seconda)

Negli ultimi anni, le facoltà mentali e fisiche di Menelìc declinarono. Un tentativo della regina Taitù, originaria del Semièn, di costituirsi, per la successione, un proprio partito falli per un pronunciamento dei capi Scioani, timorosi di perdere il primato nell’impero. Prima di morire, Me- nellc designò a suo successore Iasù, figlio di sua figlia Scioà Regga e di ras Micaèl degli Uollo Galla. Ma, morto il vecchio re (12 die. 1913), Iasù risultò un ragazzaccio vizioso, degenerato. La condotta delle cose fu as­sunta dal padre di lui, Micaèl, che ottenne il titolo di re. La decisa propen­sione di Iasù per l’islamismo, per la Turchia e per i suoi alleati durante la Grande Guerra agevolò un grande pronunciamento Scioano contro di lui (27 sett. 1916): Iasù fu deposto, venne proclamata imperatrice Zauditù, figlia di Menelìc, e, poiché questa non aveva figli, fu scelto il suo erede in ras Tafarì, figlio di ras Maconnèn. Brevissima la guerra che ne seguì: re Micaèl fu vinto e catturato in Chembebìt. Iasù tenne ancora la campagna, ma finì anch’egli prigioniero degli Scioani.

Ras Tafarì, nella spartizione delle attribuzioni, volle riservati a se stesso i rapporti con l’estero: mossa abilissima, che gli permise di farsi presto riconoscere dall’Europa come il vero ed effettivo rappresentante della corona. Grazie alle gelosie dei vari Stati, ebbe successi assai importanti, come l’ammissione dell’Etiòpia nella Società delle Nazioni, e come la sua grande visita alle Corti Europee. Con assai abili maneggi, nel tempo stesso, si conquistava in Abissinia aderenze: intorno a lui raggruppavansi gli elementi più accesi e irrequieti, giovani che nelle scuole europee in Abissinia e anche addirittura in Europa si erano accostati alla cultura occidentale, troppo male assimilandola, traendone argomento ad aggravare uno dei maggiori difetti del carattere abissino, l’orgoglio, e formandosi idee fan­tastiche. Il ras vagheggiava piani grandiosi di riforma dello Stato, accentra­mento del potere effettivo nelle mani del sovrano, eliminazione della feu­dalità locale, avviamento dell’Etiòpia a uno stato di maggiore civiltà, una specie di egemonia fra i popoli di colore africani. Per farlo, occorreva che nessun timore di pericoli intralciasse la accorta sua politica interna: l’unico pericolo era l’Italia, rimasta sotto il peso della battaglia di Adua, che si sapeva sulla via d’un risollevamento militare, e contro la quale s’appuntavano gli strali di gruppi a carattere irredentista. Per assicurarsi contro tale pericolo, il ras stipulò con l’Italia (1928) un trattato di pace per un ventennio; accordi addizionali mirarono a dare all’Etiòpia una zona franca nel porto di Assab, così trovando una soluzione al problema dello sbocco dell’Etiòpia sul mare, e all’Italia la costruzione d’una camionabile fra Assab e Dessiè. Ma le opposizioni che queste convenzioni trovarono negli ambienti di Addis Abéba, anche fra i nazionalisti del partito di Tafarì, opposizioni che il ras non ebbe dapprima la forza e poi la volontà di superare, fecero sì che da parte etiopica gli atti stipulati non furono sanzio­nati, e la camionabile, unica concessione all’Italia, rimase sulla carta. Un incidente alla Corte della regina Zauditù, clamorosam. sfruttato dai naziona­listi condotti dal cantibà Nasibù, porse al giovane ras l’attesa occasione per imporre alla regina la sua elezione a re, senza definito territorio, e l’allargamento dei suoi poteri: ras Cassà lo assecondò (sett. 1928). Della nuova posizione il re Tafarì si avvalse con la consueta abilità per perseguire i suoi fini. La ribellione di ras Gugsà Oliè, un nipote di Taitù che era stato marito di Zauditù, gli permise di eliminare, con l’uccisione del ribelle, uno dei più pericolosi avversari. Inoltre, Zauditù, che pur dopo il divorzio aveva con Gugsà conservati i migliori rapporti, morì improvvi- sam. poco più di 48 ore dopo di lui (2 apr. 1930): si disse per diabete, di cui soffriva, aggravatosi in seguito alla commozione provata nell’appren- dere gli avvenimenti; si parlò di veleno. Tafarì diveniva, così, re dei re, col nome di Hailè Sellassiè; e la sua autorità fu generalm. riconosciuta.

Il  16 ag. 1931 egli emanò solennem. una costituzione, la quale mirava a dare all’Europa l’illusione di trattare con uno Stato civile in pieno progresso, all’autorità reale un potere sempre maggiore e allo stesso Tafarì

il   pretesto per trattenere in Addis Abéba, come titolari delle maggiori cariche del nuovo regime, quei grandi capi feudali, che nelle province avrebbero potuto dargli fastidio. Primo fra questi era il ras Hailù, figlio di re Taclà Haimanòt del Goggiàm; trattenuto nella capitale, fu facile poi arrestarlo sotto accusa di mal governo, privarlo di molti feudi, punirlo con fortissima multa; un disgraziato tentativo d’evasione di re Iasù, tenuto prigioniero, condusse alla destituzione e alla relegazione a vita del capo del Goggiàm. Inoltre avviavansi dal negus armamenti sempre più im­portanti e si iniziava la costruzione di strade a carattere strategico, con lo scopo manifesto di prepararsi a una guerra contro l’unico paese che possedesse regioni veram. abissine, l’Italia. L’elemento italiano era scartato con cura da ogni impresa, da ogni lavoro del Governo etiopico, era ostacolato in qualunque tentativo di sfruttamento del paese; mentre Svedesi e Belgi orano chiamati a istruire le truppe della Guardia Reale, Inglesi avevano ogni favore nelle concessioni, stranieri d’ogni paese erano preferiti agli Italiani. Le correnti xenofobe, particolarm. del giovane elemento nazionalista, precisavano sempre più chiaram. il loro bersaglio. Incidenti anche gravi avvenivano alle frontiere di Dancàlia e di Somàlia; altri, ancor più significativi, si verificavano contro Italiani o indigeni sudditi italiani nell’in- terno dell’Etiòpia. Maturava la situazione, che doveva fatalm. condurre a un conflitto armato fra i due paesi e alla conquista italiana.

LA SOMALIA

 La storia della Somàlia Italiana ha inizio dal trattato commerciale concluso dal Cap. Ant. Cecchi col Sultano di Zanzibar il 28 maggio 1885. Nel 1889 l’Italia accordava il suo protettorato al Sultano di Obbia e nello stesso anno i Sultani di Óbbia e dei Migiurtini riconoscevano il protettorato italiano sui territori di Garàd e del Nogàl e mettevano la costa migiurtina nella sfera d’influenza dell’Italia. Pure nel 1889, l’Italia occupava Atalèh, poi detta Itala, e dichiarava il protettorato sui tratti della costa del Be nàdir tra Uarscèc, Mogadiscio, Mérca e Bràva. Più tardi, nel 1892, tali 4 scali coi loro territori venivano ceduti in affitto all’Italia dal Sultano di Zanzibar. Ma fu solo nel 1905 che, col riscatto dei 4 scali (144 000 sterline), il Benàdir passò tutto e definiti vani. all'Italia e che fu impiantata la vita amministrativa della Colonia. Nel 1912-14 l’occupazione si estese all'interno; nel 1916 fu sventata la minaccia del Mullah, sconfitto dopo una lunga campagna dagl’inglesi nel 1920. Nel 1925, la GranBretagna cedette all’Italia l’Oltregiuba; nello stesso anno e nei seguenti '26 e '27, il co. De Vecchi svolse una rapida e decisa azione politico-militare che portò all’occupazione e alla pacificazione dei territori di Óbbia, del Nogàl e della Migiurtlnia.