VI ACCUSO!
I ricordi di un piccolo Italoeritreo.
25 gennaio 2014/ 2 febbraio 2014
Penso di dovervi raccontare la storia di un figlio di italiani, abbandonato. La prima cosa che mi viene in mente è come io, figlio di un italiano, abbia preso la cittadinanza italiana. Mia madre, per fortuna ne avevo una, andò dal Console con noi, i suoi due figli: biondi con gli occhi chiari, per chiedergli se ci poteva mettere in collegio. Il console vedendoci chiese che cosa ci facessero due ragazzi bianchi con quella signora eritrea e il Segretario, gli rispose che erano figli suoi.
Le dissero che avrebbero provveduto. Dopo alcuni giorni si presentò un Sacerdote che ci portò in collegio, chiedendo a mia madre se aveva dei documenti che provavano che eravamo figli di un cittadino italiano. Mia madre consegnò i documenti di nostro padre: passaporto e altri documenti, relativi alla nostra nascita e Battesimo che giunsero così al Vescovo (allora Mons. Marinoni).
Fummo così trasferiti: io all’ orfanotrofio di Saganeiti, e mio fratello al collegio dei Comboniani. Mio padre, quando avevo sei mesi, in realtà mi voleva portare con se su una nave dove c’ erano tutti prigionieri di guerra (1), ma mia madre si oppose dicendo che ero troppo piccolo per affrontare tale viaggio e rimasi così con mia madre.
Mio padre: Vincenzo Perrotta, da come mi hanno raccontato, si fece tre campi di prigionia e poi non si seppe più nulla di lui. Così io mi sono fatto cinque anni a Saganeiti, un paesino a 62 km da Asmara, nel collegio gestito da Suore (dell’Ordine di Sant’Anna) mentre a capo vi era un Sacerdote (Cappuccino).
Cominciai così a studiare; ci insegnavano l’Italiano ma avevano un difetto: bastava una piccola mancanza che venivamo apostrofati con queste parole: “Voi siete figli del peccato”; sentirselo dire provocava pianti a non finire. Mi chiedevo: ma non eravamo figli dei loro fratelli italiani? ma comunque è cosa passata ma resta pur sempre una ferita.
Finito il ciclo di studi, dopo la quinta elementare si ritornava ad Asmara, non vi racconto la vita che facevamo, ce ne sarebbe da raccontare e scrivere un libro di duemila pagine. Ad Asmara si cambiava vita, cominciavi la vita del collegiale apostrofato da quelli esterni che ti facevano lo sberleffo dicendoti “collegiale”, ti insegnavano un mestiere e a diciotto anni uscivi formato.
Quando in molti cominciarono a rimpatriare, negli anni ‘60 anche molti di noi Italoeritrei volevamo farlo, mah il guaio era che non eravamo ancora cittadini italiani e allora che cosa dovevi fare: o compravi il nome da un italiano, circa due o tremila “birr” che erano tanti, erano i risparmi di quando in collegio lavoravi, (2) o chi come me si impuntava e doveva preparare una documentazione diversa. Il Sacerdote allora Direttore del collegio ti portava al Municipio e ti registrava come “nn”: cioè figlio di nessuno.
A quei tempi, alla registrazione c’era un Funzionario (il Sig. Culasso) che mi chiese che cognome volessi e io gli dissi: Perrotta, il cognome di mio padre ma egli obbiettò dicendomi che lui mi doveva registrare come “nn” e così mi impose il cognome di Domaselli, cognome di fantasia e così mi registrò.
Dopo una settimana andai a ritirare tutta la documentazione, la portai al Consolato, mi dissero che dovevo ripassare dopo una visita medica (all’epoca del dr. Greppi) e che avrei fatto dopo dieci giorni per poi ripresentarmi. Mi recai allo Studio per la visita e vi trovai parecchi ragazzi che avevano fatto la mia stessa documentazione. Quando toccò il mio turno entrai e il dottore mi disse di calare giù i pantaloni, osservò il pene e non so ciò che nesso potesse avere (3).
Ora c’ era un certo signor De Rossi, che nei primi anni cinquanta voleva farci riconoscere come cittadini italiani, ma che si suicidò quando apprese che non avrebbero mai dato la cittadinanza a noi orfani: riposa in pace Tu che sei stato tra i pochi a pensare a noi orfani (4); ma ritorniamo alla Cittadinanza: tutta la documentazione fu spedita in Italia a un Tribunale che doveva verificare ed approvarla. Chi sa quali siano state le considerazioni quando avranno letto del pene, immagino le risate. Comunque, dopo due anni, il Decreto ci fu consegnato e prendemmo la cittadinanza alla faccia di chi non voleva darcela:
Poi per partire, sempre che qualcuno metteva il bastone tra le ruote. Anche l’imperatore Haile Selassiè aveva imposto che anche noi orfani dovevamo avere un documento, ci diedero un tessera che non ci qualificava ne’ come cittadini italiani, ne eritrei. Quando arrivò il momento di partire all’Ufficio Emigrazione ci dissero che quel documento era la nostra “cittadinanza etiope”, e giù avanti e indietro per gli uffici. Ma per fortuna c’era un Console deciso e risoluto: il console Scamacca che sbrigò tutta la documentazione che provava che eravamo cittadini italiani. Credo che siano pochi a conoscenza delle malefatte di quegli Italiani che non volevo farcela dare la cittadinanza.
Se siete di Asmara sappiate pure questo, e non dire che la “letté”, (5) parola ignobile, vi lavava vestiva per trenta miserabili “birr” con un lavoro di quindici o più ore al giorno. Povere ragazze al vostro servizio, e voi che vi dite Asmarini avete sempre avuto la puzza sotto il naso. Quando la “letté” vi salutava dicendo buongiorno! avevate quel mezzo sorriso senza rispondere, vergogna non dite che eravate educati e non dite che siete di Asmara, ci siete nati non siete Asmarini, siete i figli del Colonialismo del Fascismo.
Avevate il vostri Circoli dove era vietato entrare se avevi un po’ di nero sulla pelle, ma per noi mulatti la nostra pelle è forgiata da due etnie, e resa dura a tutte le cattiverie da voi importate. Mussolini ci voleva eliminare, diceva: “eliminateli perché questi hanno la furbizia del nero e la cattiveria del bianco”, come vedete nemmeno lui e riuscito a farci niente.
Ricordo che un Ascaro mi raccontava che verso la prigione c’era un laboratorio dove sperimentavano sulla pelle dei mulatti come me, delle medicine, vedete neanche quelle ci hanno eliminato accettate anche queste mie ferite e vedrete che crescerete. Non sono polemiche, ma una conoscenza di tante cose che succedevano ad Asmara, dove la “gente bianca” girava con il paraocchi, e dove quei ragazzi, meno fortunati di noi: i monelli che non sono riusciti ad avere nulla, quelli sono i veri Asmarini perché la giravano in lungo e in largo, la conoscevano bene, loro sì che sono Asmarini (6).
Non me ne vogliate, non credo che leggerò tutto quel che da voi si dice su di Asmara, ma leggerò volentieri se qualcuno scriverà cosa ha combinato ad Asmara. Vorrei dimettermi da Asmarino ma ce l’ho stampato sulla pelle: Ancora oggi, nel mio condominio non è cambiato nulla, appena hanno saputo che ero mulatto il trattamento è stato uguale a quello di Asmara, solo che adesso sono più maturo e li mando… “a quel paese”. Come vedete per me non e cambiato niente. (7)
Ma ripartiamo da Saganeiti: Quando sono arrivato il prete che dirigeva il Collegio era padre Eusebio un personaggio molto alla mano, il suo soprannome in tigrino era Kesci Mahado', era molto robusto e quando andavamo a caccia con lui; si faceva rifornimento di carne: facocero, galline faraone, istrici e noi lo aiutavamo a riportare la selvaggina; una parte era per noi ragazzi e ragazze. Quando qualcuno si faceva male lo prendeva con un braccio e se lo caricava sulle spalle. Nel cappuccio portava sempre un pacco di caramelle americane, non so se qualcuno se le ricorda era colorate, ma di un colore forte erano tutte attaccate, e ce le dava noi, vedendole era festa, e quando si presentava dove giocavamo tutti a corrergli dietro sapendo che ci aveva portato le caramelle, era un vero Missionario,
Poi ha preso il suo posto un certo padre Vittore, che ci fece mangiare polenta per sei mesi. Vi immaginate tutti i giorni polenta? Un ragazzo è scappato e arrivato ad Asmara, ha parlato con il Vescovo e quindi lo hanno sostituito. Quando e venuto quello nuovo ha visto che a tutti era venuta una bella pancia, ha ripreso la solita alimentazione; dietro ai pentoloni ci misero uno nuovo: era padre Ottavio. Uomo di poche parole, ma di mano molto veloce: non facevi in tempo a evitare la sberla che era già arrivata a destinazione; molto rude nei nostri confronti.
Quando c’era padre Eusebio si facevano delle scampagnate, si andava a Hebo dove morì e fu sepolto il Beato Giustino De Jacobis, non so se poi è stato fatto santo. Era pure lui un missionario con i fiocchi e si vestiva come i paesani; riprendiamo la gita per Hebo, a piedi erano 30 km ma facendo le scorciatoie risparmiavamo un bel po' di strada, premetto eravamo tutti scalzi, ci portavamo dietro i pentoloni, i piccoli portavano il resto dopo tre o quattro ore si arrivava a destinazione e la cuoca preparava il pranzo mentre noi andavamo a pregare sulla tomba del Santo. Dopo aver mangiato si ritornava a casa, cioè in collegio.
Ma la fame era troppa avendo mangiato solo un piatto di minestra e un panino; allora c’ erano i campi coltivati dai Paesani e noi pronti a far razzia di granturco e tutto quello che seminavano. Ci chiamavano le “cavallette del collegio” si organizzava una spedizione e una buona parte dei ragazzi andava a prendere quel ben di dio e via. Ma c’ era sempre un contadino che stava di sentinella sopra una collina e appena vedeva muoversi le piante gridava, “irire hanti grat te ueruret”, non so la traduzione perfetta ma era: “attenzione nel campo ci sono degli estranei che rubano”, e i paesani a rincorrerci con i bastoni; se qualcuno veniva preso prima le bastonate dei Paesani e poi il resto glielo dava il prete ma raramente venivamo presi perché' appena sentivamo l’urlo della sentinella eravamo già spariti.
Di aneddoti c e ne sarebbero tanti da raccontare, ma in fondo i Paesani erano brava gente: quando andavi al paese ti offrivano di tutto: “l’ingera, la chiccia', l’hanza” e ti facevano un tè buonissimo. Solo che la fame era tanta per dei ragazzini che giocavano e correvano. Poi c era da raccogliere i fichi d’India: una volta raccolti si dovevano sbucciare, se mancava il coltello si prendeva un chiodo lo si appiattiva e per arrotarlo c’era il muro del refettorio e cominciavi a fare avanti e indietro poggiando il chiodo nel muro una volta affilato, ancora rido, si prendeva il braccio di un tuo compagno e lo provavi sulla sua pelle e quello zitto perché' la prossima volta sarebbe toccato a lui provare il chiodo a mo’ di coltellino, se non si tagliava riprendevi ad affilare fino che il povero ragazzo non sanguinava, non molto, ma sanguinava. E giù tutti a mangiare i fichi a più' non posso. Se a qualcuno succedeva di mangiarne troppi, gli si otturava la via d’evacuazione e le donne di servizio facevano bollire dell’acqua con del berberè e ti facevano correre fino che non passava tutto!
I più grandi poi ti insegnavano quale frutto mangiare e quale no, se avevi una ferita ti potavano vicino a una pianta che aveva una bacca a forma di una pallina la aprivano e poi prendevano una foglia e ti pulivano la ferita e aprendo questa pallina, che era piena di una polverina marrone, ti medicavano con un antibiotico naturale. Dopo pochi giorni la ferita era guarita. Le donne di servizio ci facevano il bagno con il sapone di Marsiglia, non c era altro! se cadeva per terra lo alzavano e te lo passavano sul corpo, i piccoli sassolini, che si erano attaccati al sapone, ti facevano dei piccoli graffi una volta asciugato se continuavi a sanguinare ti potavano dove c’ erano le foglie del fico d’India che si erano staccate e se la foglia si era sfatta si prendeva la parte gelatinosa e te la spalmavano. Si formava una pellicola trasparente. Se la lasciavi asciugare, dopo un’ora la pelle ritornava rosea. E poi dicono che hanno inventato il cerotto trasparente! Dovrebbero dare il “Nobel” a Saganeiti: il cerotto trasparente lo conoscevamo già' prima che lo inventassero.
Al compimento degli otto anni si faceva la comunione e veniva mons. Marinoni: per la Comunione e la Cresima, si facevano tutte e due insieme, la preparazione. I vestiti, già indossati da parecchi prima di noi, consistevano in un completino color crema, pantaloncini e giacchetta, con un fiocco nel petto a sinistra e poi c’ erano le scarpe tenute bene. Le donne stavano attente mentre ci mettevano le scarpe, perché l’anno dopo dovevano indossarle gli altri ragazzi. A volte la misura era scarsa quindi ti calzavano con un certo sforzo, immaginate uno che andava sempre scalzo: erano dolori! Una volta vestiti si andava in chiesa c’ erano dei padrini: Italiani che vivevano e lavoravano in zona.
Ricordo che c’ erano: il sig. Ghirini una bravissima persona la moglie e i figli ,poi c era il sig. Perani, che aveva una concessione di verdure e ortaggi di vario genere, c’era il sig. Paris anche lui, come gli altri, aveva dei figli che studiavano con noi in collegio altri non mi ricordo so solo che le persone elencate facevano a turno con i ragazzi che facevano la Comunione e la Cresima ,fatta tutta la celebrazione si andava tutti a pranzo, non al solito refettorio, ma a fianco della chiesa dove c’era un grande salone e li si festeggiava, quel giorno: pasta al sugo ,molto buona perché' c era il Vescovo, secondo carne con patate e un dolce. Finito il pranzo le donne che ci accudivano ci chiamavano ti spogliavano e ti rimettevano il solito pantaloncino di abugiadit (tela di cotone) e la maglietta via pure le scarpe che ci avevano tormentato in Chiesa, e via, si andava a giocare con i piedi ormai liberi.
Il lunedì si ricominciava a studiare, i ragazzi erano tanti: chi era stato trovato abbandonato dentro un “zembil” (cesta di foglie di palma intrecciate) vicino al cancello, qualcuno di non più di due anni d’età. Questi ragazzi sono cresciuti con noi, nel bene e nel male, erano creature di Dio, dopo esser cresciuti anche loro sono per la loro strada. Come vedete Dio ci ha protetti, cresciuti, non si e mai dimenticato di noi come hanno fatto tanti dei nostri padri. C’era un ragazzo cresciuto con un handicap si chiamava Nuccio eppure anche lui con la sua volontà di emergere è cresciuto aiutato da parecchi di noi; era più robusto e quando gli facevi un dispetto, con tutto che aveva una gamba offesa, correva e ti appioppava una sonora sberla: ora Nuccio non c’è più, caro Nuccio, riposa in pace.
Con noi c’erano anche ragazzi eritrei che studiavano, io ne avevo due in classe: uno si chiamava Makonnen e l’altro era di Saganeiti e si chiamava Haile’ già dalla prima elementare diceva: “Eritrea libera” ed era appassionato di aerei, li disegnava sempre, è morto nel combattimento quando gli Etiopici hanno attaccato Massaua. Riposa in pace caro Haile perché l’Eritrea che tu volevi libera, con tuta la tua passione, ora è libera, ma ora piangeresti a vedere da chi è governata la tua Patria! sei stato un compagno di classe intelligente, che Dio ti ricompensi per quel che sei stato capace di fare.
Vi era poi una compagna di classe anche lei abbandonata ma e crescita bene pure fosse albina. Ricordo che ci mettevamo intorno a lei quando il sole picchiava per proteggerla dai raggi. L’ho rivista un paio di anni fa, pure lei sta bene nonostante tutto il male che le Suore le hanno fatto. Anche a questa dolce persona, che non faceva male a nessuno, Dio ha dato una grossa mano pure lei adesso è ormai lontana dalle cattiverie.
La mia classe era tra le più popolate: eravamo quindici ragazzi e quindici ragazze. Dopo la prima elementare avevo Diego, come compagno, mi pare che viva a Torino; c’erano anche: Roberto, Angelo, Giovanni, Makonnen, Haile. Tra le ragazze ricordo: Virginia, l’albina, Rosi, Caterina, Gemma, le altre non le ricordo. Ora chiudo, saluto tutti in particolare chi è stato mio compagno di classe: mi scriva se ha letto queste righe e mi farebbe grande piacere incontrare tutti color che sono stati in Collegio con me. Grazie.
Note della Redazione:
- Improbabile che il piccolo potesse partire con il padre prigioniero, degli Inglesi poi! Conseguenza logica è che separati i genitori il piccolo rimanesse con la madre. Fu un errore però aver diviso i due fratelli.
- Non si può comperare un cognome si tratta quindi di ottenere una falsa affiliazione/adozione da cui ne derivava l’acquisizione del cognome. Cambiare il cognome è stato spesso una necessità non potendosi sentire il padre o un suo legale rappresentante. Non può un Funzionario stare solo alla parola e a documenti incerti e compromettere i diritti e l’onorabilità di chi è assente.
- L’esame medico poteva certamente prevedere se il ragazzo era circonciso o no; se circonciso se si trattasse di circoncisione rituale o circoncisione parziale effettuata a scopo di profilassi. Poteva quindi, da quelle parti, raccontare una parte iniziale della vita del ragazzo.
- I De Rossi, Italoeritrei loro stessi, rappresentarono una delle più illustri famiglie di Asmara. Il capostipite attivo in campo industriale, sappiamo ora, lo fosse anche in favore dei suoi Connazionali. Non si conoscono le cause del suo suicidio,
- La “lettè” era la tradizionale donna di servizio, ogni famiglia ne aveva una a loro era riconosciuta una retribuzione pari al salario minimo corrente, ma le veniva dato vitto ed alloggio: Quindi in quanto donna leggermente privilegiata rispetto ad esempio un manovale di cantiere. I salari decisamente bassi erano stati però stabiliti “dal mercato”, qualunque sia stato il Governo in carica. Le “lettè” in molti casi diventavano poi parte della famiglia, molti gli Italiani cresciuti con l’affetto e l’aiuto di queste donne.
- La ricerca medica, per certi casi d’avanguardia, è sempre stata condotta dai nostri medici, singolarmente conosciuti, nel rispetto dell’etica e delle nostra alta considerazione e rispetto della vita e dignità dell’Uomo. All’epoca poi se si operava, si operava sotto l’Amministrazione Inglese.
- I tempi cambiano. Walter; che si è sentito discriminato anche nel proprio condominio in Italia, avrà notato che interi quartieri delle nostre grandi città sono ormai occupati da Africani e vengono abbandonati dagli Italiani perché sono loro ad essere, ora, a disagio.
La Redazione