CIELO + SABBIA
 Paesaggio

Accade a volte di udire da parte di ignoti, sia in TV che dalla bocca di pretese”fate benefiche”, feroci condanne sull’italiano in Africa, sfruttatore del povero colorato….Non accetto che venga misconosciuto il lavoro a volte durissimo quando non addirittura “eroico” di tanti italiani su quelle terre più calde dove ho vissuto per tanti,  tanti anni,  mettiamo trenta!  Davano pane ad altri, spartivano la fatica come il cibo.

Ho conosciuto, laggiù, veri “personaggi” ricchi solamente di un coraggio, di una perseveranza, una sopportazione alle fatiche e alle sconfitte con quell’eterno ricominciare da zero su coltivazioni “create” sperate, alimentate di illusione e di fede, di fantasia……personaggi da “western”, da film senza pellicola, da racconti di Caldwell, che so, di Arrigo Levi, magari. Leggendari! Scendevano in un bassopiano torrido, sul vecchissimo Camion sbarcato su quelle terre vent’anni prima, spesso tenuto assieme da fili di ferro, lamiere rimesse, da prodigiosa, industriosa, creatrice volontà.

Motori ansimanti rimessi in moto ed in vita le mille volte, ruggenti al caldo ma sempre pronti alla voce del padrone, a riprendere fiato.

La zona ottenuta in “concessione” pareva respingere ogni tentativo; era stata laggiù indisturbata per millenni….fino a che giungeva lui, il pioniere bianco, con la semente, la benzina, l’acqua, una volontà indomita, una speranza da riempire mille cuori tant’era grande e sempre rinnovabile, sempre fresca, sempre nuova ad ogni stagione. Sotto la “zeriba” fabbricata d’urgenza all’ombra scarsa di qualche palma, o baobab, o acacia trasparente dalle larghe braccia, o sicomoro cupo se la fortuna ti assiste, veniva messo al riparo “lui”, il camion, fonte di sicurezza e di produttività.

Che subito avrebbe provveduto ad arare, magari fornire la luce, per poi ripartire e rifare centinaia di chilometri risalendo l’altipiano alla prima mancanza di chinino e di vettovagliamento.

Il Camion rappresentava la vita. ….Al campeggiatore si sarebbe accostata prima o poi una donna, di colore, arrivata dal più prossimo – e lontanissimo comunque – gruppo di capanne in transumanza, che riteneva di aver trovato, con l’italiano anche se povero di per sé, ricchezza.

E l’aveva trovata: perché non ho mai incontrato in vita mia un rapporto più felice, semplice, spontaneo, umanamente sereno di scambio fra i sessi e le razze, di queste coppie di fortuna, più grande rispetto e gentilezza di modi da parte del “padrone” del “guitana” “signore” chiamiamolo, verso la sua donna. Poteva anche nascere un bambino color del miele scuro prima che i “raccolti” fossero rinnovati.

Ma c’era sempre “qualche cosa”. Magari erano le piogge che avevano tardato, rovesciandosi poi a torrenti inutilmente.

Magari erano le cavallette ad arrivare in nubi così fitte da oscurare il sole, quasi sempre dal Sudan, a nettare la piana di ogni foglia. Potevano essere starni bruchi nati in una notte, dalla vita brevissima, ma che giungevano in orde compatte orientate verso il sole nascente ed invadevano le coltivazioni. Era la fine della speranza? Ma no. Si rifaceva un debito alla banca e si ricominciava e nasceva una speranza nuova perché questa volta non si trattava di “sesamo” ma di “taf” ( che suppongo sia il sorgo), o di “dura”; certamente occorreva cambiare, ed arriderebbe il successo. Restavano sempre la donna, e il bambino color del miele bruciato, che rappresentavano ormai una vera e propria famiglia.

Veniva adottato il cibo del paese, l’”angera”, sottile, cotta sulla creta, il latte della capra bollito perché non cagliasse gettandovi dentro un sasso arroventato. L’uomo bianco “s’insabbiava” come si dice là.

Ma non era forse felice così? E poi potevi incontrarlo in un bar dell’altipiano, risalito per le sue necessità, che sapeva offrire con forbita eleganza l’aperitivo alla signora bianca (si fa per dire), perché l’Africa ha questo di ricco, di bello, che affina gli animi e le menti, forse per la “grandiosità” che li circonda e possiede, e tutti si sentono veramente un po’ fratelli e non è solo un modo di dire.

 

Quell’Africa tanto genuina del bassopiano occidentale eritreo!......Giungevano le 6 di sera.

Finita la giornata caldissima, si arrivava all’ora dell’ultima doccia, l’abito fresco, un whisky sul ghiaccio che Regvé – importazione d’ altipiano, ottima cuoca – ti serviva sul tavolo del giardino, con quelli che gli inglesi chiamano “appetizers”, ma noi chiamavamo “mezé”: qualcosa di salato per gustare poi con maggior piacere quel secondo whisky prima di pranzo. Il cielo d’improvviso s’indorava, poi era tutto rosso fuoco, poi arancione e via via verdino, violetto, azzurro, fino a quel bleu scurissimo e luminoso ad un tempo che sa riempirsi così misteriosamente di troppe stelle, tante stelle che forse una ti potrà cadere qui accanto o nel bicchiere in cui il ghiaccio discioglie, o sul cuore tutto teso a nutrirsi di tanta incredibile sovrumana bellezza: cui non credo malvagità alcuna possa resistere…finché quel cielo così bleu non si commuoverà nel richiamo del “muezzin” che dall’alto della moschea ti ricorda che Allah è grande…e che Maometto è il suo profeta…a ciascuno il suo Dio! ( che è poi lo stesso Grande Pensiero lassù!).

Il bestiame era rientrato, in lunghissime teorie sull’orizzonte, (quegli orizzonti africani così lontani sempre e così vicini sempre, in un dubbio di distanze e prospettive), in nuvole d’oro, di polvere d’oro,  sullo sfondo del cielo infocato. Si era sistemato da solo nelle proprie stalle al riparo dei selvatici notturni. Qualche belato, pochi muggiti, ed odore di caffè tostato per il rientro degli uomini dai pascoli e dai campi di cotone.

 

La notte scende rapida sul bassopiano, ai tropici è così. Più tardi usciranno le iene in cerca di cibo. Tutti gli uccelli sono sistemati, con qualche spintarella per il posto migliore, volerà qualche pipistrello. Dopo la cena, in giardino, sdraiati, guarderemo il cielo a lungo, per cercarne i disegni, e le stelle viaggianti.

Felicemente esenti da televisioni e giornali, si può conversare piano, o gustare il silenzio coi lievi suoni della notte.

Scivola via qualche mangusta alla ricerca del serpente, che davvero non manca, lo troverà.

Siamo difatti anche dotati di un serpentario a fianco della casa dal tetto di paglia in cui viviamo.

Quaggiù, ad Alighidir, dieci chilometri da Tessenei, ai confini col Sudan.

Nenne Sanguineti Poggi