Storia non romanzata di Favaretto da Dolo

 FOTO ELOQUENTI

    Negli anni ’60, quando eravamo in Addis Abeba, erano frequenti i nostri viaggi in Dancalia, con la nostra Volkswagen. Erano 860 Km che percorrevamo in due tappe. Ci fermavamo a Cobolcià, dove vi era un motel dell'Agip gestito egregiamente dalla signora Ferrari.

Vi andavamo per servizi giornalistici e televisivi sulle piantagioni di cotone di Assalta, di proprietà del principe ereditario

d'Etiopia, grazmach Asfaw Wossen e di Tandaho di proprietà della Mitchell Cotts, site a circa 300 Km da Assab. A volte

ci spingevamo fino ad Assab. Dividevo il compito con mia moglie che prendeva appunti, e spesso era lei stessa a scrivere l'articolo che io traducevo in inglese.

La Dancalia è bella: ha il fascino del deserto avaro che stimola alla lotta. Chi vince le avversità del deserto si sente più uomo. E' bella, la Dancalia per la sua Piana del Sale. Una volta lì c'era il mare; quando si ritirò vi rimase un lago che,

prosciugandosi, lasciò un alto strato di sale. Questa piana è così bianca che fa pensare alla neve, pensiero subito      cancellato dal caldo infernale che vi regna. La candida distesa si trova ad un centinaio di metri sotto il livello del mare.

E' bella la Dancalia per gli struzzi veloci e gli asini selvatici che, a differenza dei loro fratelli domestici, galoppano come cavalli. E' bella per i monti di lava che sembra covino ancora il fuoco. E' bella per il fiume Auasc, che scende dall'altopiano e fa fiorire il deserto, l'Auasc pieno d'ippopotami e coccodrilli. E' bella per i mulinelli di sabbia che s'innalzano fino a sembrar colonne d'oro che sorreggano il cielo e per i suoi tremuli miraggi che riflettono i monti.

Ma io ho tirato fuori la portatile non per parlarvi della bellezza della Dancalia che richiederebbe molto spazio, ma per raccontarvi di un uomo piccinino dal nome adatto alla sua statura: Favaretto.

Era uno di quei camionisti che avevano conosciuto la pacchia, quando dai loro viaggi tornavano all'Asmara con pacchetti di biglietti da mille grandi come lenzuoli.

Ora invece era insabbiato ad Eluà (420 Km da Assab). Viveva more uxorio con una etiopica, la musulmana Cadigia, un donnone che lo rendeva anche più piccolo e faceva pensare a quegli insetti (vedi mantide o alcuni ragni) il cui maschio è cosi piccolo che la femmina, dopo il connubio, se lo pappa vivo.

Non che Cadiga avesse questa intenzione. Cadigia era buona, era lei che lo aveva salvato quando, vittima di atrocissimi dolori reumatici, era stato costretto a fermarsi nella baracca ove il donnone aveva uno spaccio. Cadigia gli aveva dato da dormire e l'aveva curato. Aveva anche chiamato uno stregone che, praticandogli dei tagli al collo del piede, ne aveva fatto

fluire il sangue, che poi aveva stagnato con erbe misteriose. E Favaretto si era sentito subito bene. Poi gli aveva detto che se voleva che i dolori non tornassero più, doveva restare ad Eluà: il clima secco li avrebbe tenuti lontano.

E Favaretto, un po' perché non gli pareva vero di potersi liberare da quella maledizione che lo martorizzava da anni. un po' perché Cadigia era un'ottima cuoca, un po' perché quel donnone gli piaceva, decise di restare.

Vendette il suo "trentaquattro" e mise insieme un bei po' di quattrini.

 

Finanziò Cadigia per la costruzione di un piccolo ristorante in muratura e piano piano s'insabbiò. Chiuse la porta al suo mondo, dimenticò parenti ed amici di Dolo, il suo paese veneto, e si scordò persino dell'Italia. Gli restarono amici i camionisti bianchi e neri che, lungo il viaggio in Dancalia, si fermavano a mangiare e bere da Cadigia e facevano quattro   chiacchiere coll'ex compagno di lavoro.

Sotto la larga visiera del suo berretto, Favaretto sembrava sempre più piccolo. Si trascurava: il tempo fra una rasatura e l'altra diventava sempre più lungo, le scarpe erano sempre più sporche.

Cosi era Favaretto, quando l'incontrammo. Venivamo da Assab. Forammo presso Sardò (240 Km da Assab). Scesi e presi la ruota di scorta dal portabagagli: maledizione! Era sgonfia. "E ora?" ci chiedemmo costernati.

Chi conosce la Dancalia sa come una foratura ti può inchiodare sulla strada per non si sa quanto tempo.

Proseguimmo sulla ruota sgonfia per qualche chilometro, fino a quando trovammo un posto di polizia che, anche se non poteva aiutarci a riparare la ruota, ci dava sicurezza.

Passò qualche ora. Ad un tratto vedemmo arrivare una Volkswagen diretta ad Assab. Dentro, due svedesi docenti dell'Università di Addis Abeba, persone gentilissime che ci offrirono la loro ruota di scorta e presero in cambio la nostra. Non solo, ma ci aiutarono a sostituire la ruota.

Ripartimmo. Ci fermammo da Cadigia e ordinammo capretto in umido, per il quale Cadigia era famosa. Andò a scegliere un caprettino di latte e lo strascinò via tenendolo per le zampette anteriori serrate nel suo grosso pugno. Ho ancora nelle orecchio i belati della bestiola e nel cuore il rimorso di averne mangiato.

Seduto in un angolo, con l'aspetto selvatico del complessato da insabbiatura, vedemmo il Favaretto. Aveva la barba lunga, un vecchio vestito che aveva perduto ogni forma, le scarpe piene di polvere. Ci guardava di sotto la visiera del suo berretto, ma non parlava. Gli parlammo noi. Prima rispose a monosillabi; ma noi bevemmo un paio di bicchieri insieme e Favaretto si sciolse. Ci raccontò della sua vita di padroncino piena di pericoli e di guadagno e del suo orribile male. Poi ci

parlò della sua Dolo, della piazza, del mercato, della donna che aveva lasciato e della sua giovinezza.

Avendo appreso della nostra disavventura, si offri di riparare la nostra camera d'aria. Sparì e non lo vedemmo più per molto tempo. "Dove si  sarà  cacciato?"  pensavamo, quando Favaretto ritornò. Ci disse che aveva riparato ben 12 forature.

Quando ripartimmo eravamo amici. Dopo qualche giorno, andammo in vacanza in Italia. Durante la nostra sosta a Padova, dissi a mia moglie; "Andiamo a vedere il paese del Favaretto".

Dolo è una cittadina pulita e carina come tante altre. La visitammo ponendo idealmente Favaretto innanzi  alle fontane, nelle vie e nelle piazze. Scattai delle foto e quando, dopo essere rientrati in Addis Abeba,  tornammo in Dancalia, pensammo di  fare un regaluccio al nostro amico. Gli portammo una bottiglia di anice, uno scatolone di biscotti e, cosa

molto più importante, le foto di Dolo. Non vi dico la gioia del piccoletto. I suoi occhi rassegnati ora sfavillavano.

Non ci fermammo perché eravamo attesi a Tendaho. Avremmo sostato al ritorno.

E cosi facemmo. Ma uno spettacolo ci sbalordi. Favaretto era irriconoscibile: raso di fresco, con in dosso un  vestito nuovo, camicia stirata e scarpe lucidissime.

"Ehi, Favaretto," gli dicemmo, "sembra un milordino".

"E si capisce: questa è tenuta italiana non dancala. Me ne vado sa. Adesso vado a salutare lo stregone e, appena possibile, rimpatrierò". E avviò il motore.

"Cosa è successo a" chiedemmo a Cadigia.

"Favaretto diventato matto. Fatto vedere foto per tutti, dire che suo paese stare troppo bello, volere tornare in Italia".

"E tu?"

"Io non volere ma lui testa dura. Cosa fare? Io non potere fermare". Si dice che una buona foto vale diecimila parole. Le nostre le valevano certamente, visto che avevano resuscitato il Favaretto, il quale - se è esatto ciò che apprendemmo -  rimpatriò per davvero.    

 

Oscar Rampone

(Mai Taclì N. 2-1986)