C’E’ ANCORA L’ITALIA
Addis Abeba, ottobre.
C’è un certo conforto per noi italiani quando giriamo in Etiopia e soprattutto nella provincia dell’Eritrea (*). Incontriamo molta gente del posto che capisce e parla l’italiano, lingua franca non solo fra i nostri connazionali come è naturale in ogni parte del mondo, ma fra la popolazione indigena.
Un giorno, venendo da Awasa, la Land Rover del mio amico Pino ci gratifica, si fa per dire, con ripetuti sussulti di rifiuto a comportarsi bene; ogni tanto siamo fermi ai bordi della strada con una gomma scoppiata. Niente paura, esistono ancora quelle officine tutto fare dove puoi portare la gomma a riparare senza bisogno di chiedere un appuntamento quindici giorni prima. La sorpresa (gradevole) per un italiano è che tutto il vocabolario del meccanico, anche se parla solo la lingua del posto, è italiano. Siamo sempre il paese dei motori!
E’ un piccolo esempio fra i tanti che se ne potrebbero fare. La sopravvivenza dell’italiano non sorprende, naturalmente in Eritrea dove siamo stati presenti quasi cinquant’anni; resta invece un buon segno in Etiopia, dove la nostra “avventura africana” è durata in pratica appena cinque anni, dal 1936 al 1941. Non ho naturalmente l’intenzione di toccare l’argomento di come si comportarono in Etiopia (e particolarmente in Eritrea) i nostri padri e nonni: questa è una materia ancora troppo sottoposta a giudizi che risentono degli interessi personali, delle passioni umane e politiche, delle implicazioni nate da quei rapporti di sangue che il “generoso popolo d’Italia”, sbarcato in Etioipia, ha prodotto in abbondanza con la nascita dei meticci, che soltanto la propaganda insensata e offensiva, fatta dal fascismo, poteva definire “obbrobrioso meticciato”; dall’incrocio di due razze così diverse, ma per molti lati fatte apposta per intendersi, mi pare siano nati invece fra gli esemplari più belli e vivaci di questo secolo.
Non si tratta, dunque, di andare a rivangare il passato quando si analizza il rapporto degli italiani con gli etiopici: credo sia fuori luogo ogni giudizio che voglia pregiudizialmente considerare tutto sbagliato il nostro sbarco nelle terre etiopiche, come sarebbe altrettanto fuori posto un’acritica esaltazione di quello che noi abbiamo portato in Africa Orientale. Oggi a distanza di ormai cinquant’anni dalla conquista dell’Impero, il rapporto fra etiopici (eritrei in particolare) e italiani conosce un nuovo corso.
Gli etiopici, sotto il regime di Menghistù, hanno bisogno della collaborazione degli europei più anco- ra di una volta. Infatti come immaginare un impianto, anche minimo, di moderne attrezzature nell’agri- coltura, nel commercio, nei servizi, senza l’intervento dei capitali e degli uomini dell’occidente europeo? Impossibile. Basta un’occhiata in giro per la città o per la campagna per concludere che qui non siamo neppure alla soglia della prima industrializzazione. Io credo che anche noi europei abbiamo forse l’opportunità di sperimentare qui non quel tipo di industrializzazione selvaggia che non ha dato la qualità della vita che ci si aspettava, ma un altro e diverso tipo di industrializzazione che rispetti l’ambiente e dia all’uomo, con l’ausilio dei computers, una giornata che lasci spazio anche alle riflessioni e, perché no?, al “dolce far niente”….
Il rapporto fra gli italiani e gli etiopici non si limita tuttavia al settore economico. Molto importante in questa parte dell’Africa è l’opera degli educatori religiosi (sacerdoti, suore) o laici, che si occupano delle scuole, degli ospedali, dell’assistenza. Ho conosciuto il vescovo di Awasa, mons. Gasperini, e mi pare che quel che mi dice (e quel che ho saputo da lui) sia l’esempio di un’opera educatrice che i religiosi italiani, insieme con quelli di altra nazionalità, stanno facendo per le popolazioni etiopiche. Il primo campo è quello della scuola. Le scuole comboniane (mos. Gasperini è un comboniano) sono fiorenti ed anche oggi sono frequentate in maggioranza da indigeni. Mi dice il vivace vescovo: “Noi non chiediamo nulla alle autorità; vogliamo solo che ci lascino lavorare”. E in effetti sono le autorità che chiedono spesso qualcosa a mons. Gasperini. Quando le carestie colpiscono il paese i primi ad intervenire sono i religioni con i loro uomini, le loro organizzazioni, che riescono a convogliare qui i primi soccorsi.
La carestia è un flagello antico che colpisce ancora oggi in modo crudele questa popolazione. E’ difficile avere dati sull’andamento della carestia, che anche quest’anno ha fatto certamente morire migliaia di persone. Purtroppo questa è una triste storia. La morte di poche persone da noi (la morte per incidenti stradali) è una notizia, qui la morte di migliaia di esseri umani è un semplice dato statistico quando se ne venga a conoscenza, ciò che è molto difficile.
L’etiopico convive con l’idea della morte, un evento che non ha lo stesso impatto che ha fra di noi. Il senso della vita, forse perché essa dà soprattutto sofferenza e fatica ai più, non diverso da quello della morte, è accettato diversamente.
Un’istituzione italiana alla quale mi sento in dovere di dedicare un’attenzione particolare è l’Ospedale Italiano di Asmara. Questa istituzione dà al nome dell’Italia e alla collaborazione fra il popolo italiano e il popolo etiopico il valore della concretezza. Con pochi medici (c’è un chirurgo bravissimo, il dott. Fiorello Silla, un vero apostolo nel suo lavoro) con attrezzature vecchie di molti anni (alcuni decenni), è certamente il luogo di cura più ricercato ed apprezzato dell’Eritrea, e anche di altre parti dell’Etiopia. L’attrezzatura sanitaria etiopica è ancora molto modesta. Anche dieci anni di rivoluzione non hanno fatto fare molti progressi in questo campo. I medici, il personale, gli amministratori di questo ente morale che è l”Hospitem” (questo è il nome dell’Ospedale Italiano di Asmara) sono dei veri cirenei che aspetterebbero - questo lo dico io, perché loro non oserebbero farlo - che il Governo italiano o le istituzioni ospedaliere del nostro paese dimostrassero un po’ più di attenzione e di generosità per questa opera italiana.
L’”Hospitem” sta cercando da anni un ospedale gemello in Italia, per avere scambi di aiuti e di esperienze. Certo l’”Hospitem” chiede in termini materiali più di quanto ovviamente non possa dare: chiede però attrezzature che sicuramente in certi nostri ospedali sono vecchie e già messe in un magazzino a marcire, mentre qui sarebbero ancora gioielli di perfezione e di modernità. Ma a qualche medico giovane che vuole acquisire un’esperienza in Africa, l’ospedale italiano è pronto a dare sicuramente un patrimonio di nozioni e di pratica che sono, forse, uniche.
Spero che nel Veneto ci sia qualche ospedale che raccoglierà l’appello che, non richiesto, io rivolgo dalle colonne del giornale. Sono certo di fare una cosa buona ed utile, nel campo della cooperazione umana civile.
(*) In quell’epoca l’Eritrea faceva ancora parte della Federazione Etiopica.
Gustavo Selva
(da “Il Gazzettino” di Venezia del 18-10-84)
(Mia Taclì N. 5,6-1984)