1937: 21 aprile, Amba Galliano

 1937 

      Oggi è festa, è il Natale di Roma e, dopo tante prove, finalmente la sfilata è in corso: siamo alla stadio militare pieno di bandiere e di gente rumorosa assiepata e sulle tribune e tutt’intorno al campo; nella tribuna centrale i più importanti gerarchi e, dicono, uno importantissimo è venuto apposta da fuori per festeggiare questo giorno.

Gli altoparlanti strillano verso il cielo azzurrissimo i più importanti motivi fascisti, dico verso il cielo perché ho l’impressione che pure i falchi lassù lassù tengano il tempo nei loro volteggi ora dolcissimi ora in fulminea discesa.

Come in tutte le occasioni importanti le signore sfoggiano cappellini e guanti e tacchi altissimi, bocche disegnate a cuore seguendo o no la linea delle labbra con i rossetti rossi, braccialetti tintinnanti come campanelli mentre muovono le mani in segno di saluto o di vezzo, seduzione per attrarre, ammaliare “lui”, lui uomo certo, qualunque “lui”, perché ogni uomo ci casca; osservo nei miei pochi anni: ogni uomo si lascia incantare, stregare da queste moine, da queste svenevolezze e s’illude che siano solo per “lui”. E poi?

Spero solo che non facciano le sceme con il mio papà! Mi interrompono i pensieri: è la capomanipolo che grida di prendere per mano le mie compagne perché ora tocca a noi! E via: io sono una Figlia della Lupa e anche se sbagliamo il passo nessuno ci fischia, anzi certo facciamo tenerezza e quindi battimani a non finire.

Anche i Balilla fanno dei pasticci e nessuno li fischia! Eppure loro sono maschi e ci dicono sempre che i maschi riescono comunque meglio di noi femminucce, loro vanno a combattere quando c’è la guerra e noi sappiamo solo frignare! “...e fare le smorfie per farvi rincretinire!” vorrei dire in questo momento ma non è quello giusto, loro, i Balilla, stanno marciando e non coglierebbero l’insinuazione.

Poco “sbandiamo”, cioè andiamo un po’ sbilenche però, tenendoci per mano, non ci sparpagliamo, seguiamo la capomanipolo (è tanto severa ma anche simpatica) e finiamo tra battimani incessanti.

Ora è il turno delle piccole italiane e tra loro, le mie due sorelle più grandi (la più piccola non fa niente, sta in braccio a mamma) e io le guardo a bocca aperta: sono bellissime con la gonnella nera a pieghe e la camicetta bianca sulla quale spicca lucido come uno specchio quel distintivo che adoro: è di celluloide rossa grigia e nera: rossa è la M che vuol dire Mussolini, grigio il fondo e nere le tre lettere maiuscole GIL che (mi ha spiegato tutto mia sorella Silvana, vuol dire Gioventù Italiana Littorio; e per completare la divisa, la mantella nera che dondola assieme alla gonna seguendo il corpo nella marcia e la nappa nera di seta che pende dal basco rimbalzando

ritmicamente da una spalla all’altra nel passo cadenzato.. E i guanti bianchi, dimenticavo, i guanti sono proprio necessari per l’eleganza di una “donna”. (in seguito le divise cambiarono il colore nero in caki e il fez con la nappa con il casco coloniale. n.d.r.)

Sembrano una solo in ogni fila (ma sono in otto) se le guardi di profilo, e ogni fila di otto è distante dalla precedente e dalla seguente quel tanto che basta per la libertà del passo. Intanto sono ferme come soldatini di piombo e la musica cessa dall’altoparlante: qualcuno, ma dov’è, grida: “saluto al Duce!” e tutte le ragazze, come hanno imparato in tanti mesi di adunate all’unisono alzano la mano destra (sembrano farfalle tutte quelle mani inguantate di bianco) e in un’unica voce, bravissime, urlano: “A noi!”. Noi chi, mi domando, anche io?, ma ora non è tempo di distrarsi: la capomanipolo, anche lei elegante nella sahariana nera, attacca a strillare: Duce Duce.... duce” e con la mano fa segno alle ragazze di alzare la voce mentre anche loro gridano: “Du-ce-du-ce-du-ce-du...” finché la capomanipolo urla: “Squadravanti... marsch!” e lei s’incammina per prima sulla sinistra e tutte a seguirla. A momenti si volta e procede all’indietro per vedere se tutto va bene e ordina: “Paasso!” tac. “Cadenza!” tac tac tac. Si sentono forte le battute dei piedi e le loro voci che cantano: “Fuo-co-dives-ta-che-fuor-daltem-pioe-rom-pe...”

E marciano e cantano come fossero una sola, poi, quando arrivano davanti alla tribuna delle autorità la capomanipolo urla “Attentià... sinistr!” e tutte girano di colpo la testa verso il palco e tac tac tac battono il tacco tre volte di fila per la cadenza: “la-gio-vi-nez-za-vààà...” e sfilano oltre sempre precise (dicono le mie sorelle che devono guardare sempre la nappa del basco di quella davanti per essere in pieno accordo.... ma... le prime? Sono le più brave? A questo pensiero ho un brivido d’orgoglio: Nelly e Silvana sono tutte e due in prima fila! Forse anche io, quando avrò l’età... avrò la prima fila?

Batto le mani il più possibile; appena la squadra è fuori campo e nell’attesa che arrivino gli Avanguardisti, l’altoparlante “spara” di nuovo verso il cielo la musica di “Giovinezza”.

È proprio una bella giornata di festa: sono felice perché tutti sorridono, o perché il cielo è blu, perché anche i falchi oggi ballano a bassa quota dove arrivano le note di questi inni: “...per tutto il cielo è un volo di bandiere...” dice l’”Inno a Roma” ed è addirittura di Giacomo Puccini... musica bellissima nondimeno io - per me eh? - oggi cambierei le parole così: “...per tutto il cielo è un volo di falchi...” ma i falchi non volano nel cielo di Roma anche se oggi è la sua festa.

E il suo cielo, non è certo blu come questo.

Marisa Baratti

 (Mai Taclì N. 4 - 2003)