1938: Amba Galliano, baracche Lenci

   Siamo tornati da Adua dopo un anno di permanenza in quel suggestivo posto dove tutto è senza limite, nessuna demarcazione, la nostra casa senza un recinto in mezzo al mondo, condiviso il nostro giardino con le iene che nella notte vengono a fare i dispetti nelle aiuole e nei vasi dove mamma (ha sempre avuto la passione per i fiori) ha amorevolmente seminato e trapiantato le bocche di leone e le fuxie e le begonie... certo, fanno i dispetti: a volte razzolano come galline ma sicuro il loro obiettivo è quello di trovare “qualcosa da mettere sotto i denti”. Allo scopo Ghidei, aiutata da Tedlà, l’ascaro bidello della scuola dove papà è segretario ma che sta sempre in casa nostra, cercando di lasciare i resti della cena, pane vecchio e addirittura le bucce della frutta, chi ride al pensiero che una iena possa mangiare una buccia di banana? Ridi ridi, è divertente ma è proprio così! Ma non è di Adua che stavo dicendo ma di Amba Galliano: baracche Lenci.

 

Abbiamo lasciato la nostra casa alla milizia per andare ad Adua e, tornando, in attesa che nonno ultimi i lavori della palazzina che sta costruendo al villaggio Paradiso dove già possiede i magazzini per la merce in arrivo dall’Italia - in esubero per entrare tutta nell’emporio di via Martini - nella quale troveremo un appartamento per noi, siamo sistemati in una di queste baracche, tutte, tutte uguali perfettamente in riga al centimetro: quattro stanze, cucina, bagno. É triste forse per gli adulti questo spettacolo grigioverde (è il colore delle lamiere e dell’eternit o compensato o linoleum con le quali sono costruite, è invece divertente per noi bambini perché c’è il “sotto”: vuol dire che sono costruite su piccoli piloni come fossero palafitte in mezzo al mare... ecco, certo dobbiamo abbassarci per rifugiarci sotto ché saranno alti... mezzo metro? Di più, di meno? Non conta la misura conta che per giocare è una bellissima invenzione.

 amba

2003: Amba Galliano. Laggiù laggiù Asmara.

 C’è sempre ombra sotto e anche umido, un odore speciale direi, unico. E nella calda umidità, dalla terra rossa come fossero mattoni sbriciolati, spuntano delle piantine di erba. Sono tanti i piloni e, nel centro della casa diventa un po’ buio anche di giorno e una volta qualcuno dice di averci visto correre dei topi. In casa ogni tanto c’è un topo ma mamma tiene una trappola anche se dice di non averne mai “beccato” uno. Credo comunque che dica una bugia perché mi metterei a piangere per tre giorni se sapessi che lo ha fatto ammazzare!

Non ci sono invece le cimici nelle nostre baracche che sono le migliori di tutta Asmara, si, perché in ogni villaggio: Genio, Paradiso, Mussolini e in altre periferie, ne esistono parecchie e in troppi si lamentano per questo guaio: cimici! I metodi per combatterle senza comunque riuscire a distruggerle, sono pochi: pennellare le reti dei letti con petrolio o sempre petrolio a riempire dei barattolini dietro i quali infilare a permanenza le “zampe” delle stesse reti.

Giochiamo sul piazzale centrale: alla fine delle file di baracche e dei singoli curati giardinetti, c’era una piazzetta di terra battuta, liscia come fosse un pavimento, dove, dopo i compiti, ci troviamo in tanti bambini… io però non ci vado troppo volentieri perché il gioco preferito, immancabile, è quello della trottola di seme di palma dum. Ci si arrotola tutt’intorno un grosso spago e poi, con uno scatto secco, si lancia: srotolandosi dallo spago la trottola arriva a terra con una carica incredibile e gira e gira e gira… e vince chi è riuscito a farla girare più a lungo. Lo spago rimane in mano, fatto un cappio a una cima per infilarlo nel dito medio perché non scappi. Una bellissima gara ma… ma io non sono mai riuscita, e mai riuscirò, non solo a farla girare più a lungo degli altri, ma a farla girare proprio! l’arrotolo bene alla maniera degli altri, spiando attentamente i loro movimenti, poi lancio e ritiro la mano come un fulmine quanto fanno tutti ma… arriva sulla terra e si “siede”!Deve proprio essere il mio seme che è difettoso, che non ha veramente la forma adatta…! O non è stato centrato bene il chiodo che fa da punta per poter girare sul terreno: me lo ha messo zio Pietro, il fratello di mamma che viene ogni giorno a trovarci dalla casa di nonno in via Martini perché è tanto legato a mamma, (ma anche, le sento parlare sottovoce, perché lui si è innamorato di una ragazza che abita in una di queste baracche!) facendo un piccolo forellino col trapano nella parte più piccola del seme che ha la forma di una vera trottola: di quelle di latta che vendono all’Upim in via Martini ma che costano troppo ma che poi non ci sarebbe gusto, non ci sarebbe gara ché quelle fatte apposta girano sempre. Così zio Pietro ha fatto un forellino e poi ci ha spinto dentro (con una martellata anche!) un grosso chiodo senza testa. Forse non lo ha messo bene… perché non riesco mai a vincere.

Non fallisco un bersaglio invece quando giochiamo a tirare i sassi contro un palo della luce. Che soddisfazione sentirlo suonare come una sirena! E il suono è diverso a seconda che si prende in pieno e allora vibra e seguita a strillare per un po’ o se si prende di striscio: in questo caso fa solo un lamento, come facesse “cai” alla maniera di un cane quando gli pesti la coda. Certo queste sassate finiscono nel vuoto dove non passa nessuno e invece oggi per un po’ non abbiamo preso cascì Burrù! Si è arrabbiato lì per lì e ha anche ragione, poi siccome è un prete ha perdonato. Anche perché Tabarré gli ha preparato, come ogni volta che passa di qua, un bel ciai bollente e speziato, mentre glielo prepara seguita a chiacchierare dalla finestra della cucina; pompa aria nel serbatoio di ottone del primis (che lucida in continuazione: ci tiene molto che sia brillante), poi se la fiamma non è azzurrina stappa l’ugello con lo specillo come le ha insegnato mamma. Pronto il ciai qualche volta anche lei si siede sugli scalini e se ne concede un bicchiere mentre seguitano a parlare e Cascì Burrù tira su il liquido come fosse una idrovora e schiocca la lingua appena lo ha ingoiato. Mi sono presa una strillata da mamma quando ho provato a rifare quei rumori bevendo il latte a colazione!

Tabarré e il cascì chiacchierano fitto e mi piacerebbe moltissimo sapere di che. Ma non so il tigrino! Mamma esce a salutarlo ogni volta e lei qualcosa ne capisce di questa lingua, ma lei è nata tanti anni fa quando ancora l’italiano non lo sapevano tutti gli eritrei! Lui scatta in piedi e s’inchina benedicendola con il meschèl che ha sempre in mano protetto da un bellissimo telo di seta rossa a capire come sia possibile che l’enorme cappello, (altissimo e stretto quanto la testa si allarga in alto come un fungo) non cada a terra. Mai, non succederà mai. È molto bello Cascì Barrù, alto e stecchito, barba candida come la futa che esce da sotto il mantello marrone bordato d’oro che gli copre le spalle. Scalzo. Papà gli ha fatto delle fotografie e, da una di queste, ritrovata in giro per casa, tra dieci anni ci farò un acquarello e rimarrà per sempre appeso in una parete di tutte le mie case a venire. (Tante case nella vita di ognuno di noi, tante in tanti paesi diversi… qualcuna svanita anche dai ricordi, altre più importanti anche se solo baracche; e in centinaia le abbiamo abitate per periodi più o meno lunghi, finché gli inglesi non le hanno imballate, insieme alla funivia e a tutto ciò di interessante e trasportabile, per portarsele via. E, insieme alle baracche - ben gli è stato e peggio per loro! - si sono “impacchettate” anche le cimici! n.d.oggi).

Marisa Baratti

 (Mai Taclì N. 1 - 2005)