La razzia
Pratica consuetudinaria della vecchia Abissinia. Razzia: “dal magrebino gazziyya, per il classico gazwa; scorreria compiuta da truppe irregolari o da ladri armati per devastare, saccheggiare ed estorcere con la violenza prede di varia natura. Furto ruberia specialmente di animali. Retata, requisizione di uomini”. Con queste parole il vocabolario Zingarelli descrive il significato di questo termine della nostra lingua.
Nessun vocabolo è quindi più propriamente adatto a descrivere una vecchia, consolidata, pratica abissina che l’Italia Umbertina non poteva più tollerare, almeno in quelle terre che andavamo conquistando.
Il fenomeno si verificava, da parte delle popolazioni degli altipiani dell’ acrocoro, dove avevano sede i Regni di Abissinia, a danno delle popolazioni dei Bassipiani circostanti.
Culturalmente una popolazione più progredita, stabile ad economia agricola e numerosa, di antica tradizione cristiana, retta da Re che mobilitavano eserciti e di razza semita, in caso di scelta o di bisogno aggrediva le popolazioni sparse in tribù nomadi dedite alla pastorizia dei sopradetti Bassopiani.
Le spedizioni avvenivano per razziare: uomini e donne per renderli schiavi o il loro bestiame, che veniva allevato allo stato brado in grandi mandrie. Si deve ricordare che nella zona i capi di bestiame, per lunghi periodi della Storia, sono stati più numerosi delle persone. Anche la Chiesa Copta mostrava tolleranza verso queste pratiche.
Non trattiamo della schiavitù, che costituisce un capitolo a sé, ma anche la razzia è un’azione infame, umiliante della dignità delle persone e foriera di lutti, paure, odi, sentimenti di rivalsa e di vendetta.
L’Italia si oppose energicamente a questo stato di cose e mentre sparì del tutto la schiavitù, dai nostri territori, le razzie si verificarono sempre più raramente ed ai confini con via soddisfazione delle popolazioni più umili, Ca-fre ed animiste che da noi amministrate cominciarono a fare un’altra vita.
A partire da Menelik, allora, nostro alleato e desideroso di ammodernare quella che si può incominciare a chiamare l’Etiopia, questi fenomeni pur non scomparendo diminuirono anche perché l’Eritrea e la Somalia erano ormai una realtà consolidata e teatro di queste nefandezze era rimasta principalmente e solo la Dancalia Etiopica.
Questi comportamenti considerati leciti e praticati in modo considerato naturale dagli Abissini alienavano le simpatie internazionali nei loro riguardi e possono in parte spiegare il consenso che, in seguito, ottenne la Campagna d’Etiopia anche da parte dei Cattolici (vedi Mai Tacli n°4 del 2010: “Il Papa non deve parlare” e n°1 del 2011: “Il consenso dei Cattolici”).
Ma cerchiamo qualche testimonianza per non attingere solo ai nostri ricor-di ed alle nostre esperienze che restano personali e spesso non veniamo creduti o considerati propagandisti di chisachè, rileggiamo il diario del barone Raimondo Franchetti: “Nella Dancalia Etiopica” sapendo di attingere ad un’opera redatta con fini scientifici, presentata al mondo, da nessuno mai contestata e che racconta cosa accadeva in quella zona sin nel 1928, imperante Menelik, e di cui raccomandiamo la lettura.
L’esploratore Franchetti nel corso della sua missione si trovò spesso a contatto con questo fenomeno che a volte impedì a lui stesso di procedere nella sua missione. Così come più volte, le popolazioni dancale chiesero aiuto alla sua scorta.
Spesso poi le vittime della razzie ricorrevano al medico della spedizione italiana per essere curati, con grande speranze anche per le cose impossibili come quella di porre rimedio all’evirazione che i pochi sopravvissuti avevano subito.
Rivalta lì 4 Aprile 20013
Cristoforo Barberi