Claudio Cappa
Pittore di solitudini africane
Claudio Cappa che tutti i “giovani” della mia età, o dintorni, conoscono, ha cominciato a dipingere, forse per gioco, tra i banchi di scuola, ma a questo gioco ci trovava tanto gusto da sembrar vocazione e quindi il “gioco” è diventato un lavoro ed ora è arte.
La sua pittura ha un carattere, una personalità ben spiccata, netta. Dire che mi piace è banale perché, forse, non saprei spiegarne il motivo. Ma quelle solitudini assolate che paiono anche visibili silenzi, mi stimolano anche una sensazione di pulito, di luminoso, il tutto sussurrato con toni garbati.
Cedo però volentieri la parola a un esperto che così vede l’arte di Claudio Cappa.
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Mesi addietro, visitando casualmente lo studio di Claudio Cappa, mi accorsi subito, come accade solo quando l’artista “esiste”, che Claudio, più che su buona strada, stava procedendo su strada maestra, con coerenza di linguaggio, ben determinata ricerca di valori formali d’astrazione, e buona qualità di pittura.
Laureato, colto, raffinato e leonardescamente tecnico e ostinato, Claudio, con meditato, lento e paziente lavoro di lima, mentre stava dipingendo a velature sottili su spatolati sottofondi di bianchissimo gesso, cercando la “regola che corregge l’emozione”, mi ripeteva con Jean Cocteau che “lo stile è un modo semplice di dire le cose complicate” riconfermando fra l’altro, se ce ne fosse stato ancora bisogno, che “lo stile è l’uomo”. Cappa è giunto alla pittura per atavica poetica vocazione, corroborata e nutrita poi da adolescenziali ricordi di terre d’Africa; appunti d’animo fatti di rimembranze, di cieli immensi e luminosi, di bianchi paesi rivieraschi, di mitiche donne velate, di solitari beduini, di rare vegetazioni in magici abbaglianti deserti segnati all’orizzonte da azzurrissimo mare.
Se questa solare mediterraneità orientaleggiante e certe semplici, casalinghe “nature silenti” sono la tematica, l’artista, come modo di raccontare pittoricamente, ha scelto la grande strada maestra della “pittura tonale”; quella pittura cioè che, con l’esattezza del tono, gli permette di riassorbire e quindi di eliminare quei tenui, ma non deboli, elementi di grafia che, nella genesi del suo procedimento artistico, avevano saldamente strutturato l’architettura del quadro, quasi sempre semplice e spaziale.
Il suo raziocinio e sopratutto il suo amore per la semplicità, mantenendolo quasi sempre lontano dagli allettanti sfumati chiaroscuri, lo indirizza a sempre più sintetiche ricerche di “tono piatto”, sia nella “macchia del chiaro”, sia in quella scuro che in quella della “mezza tinta”.
A suo merito va detto che il pittore, come tutti i veri artisti, guarda dietro ed oltre quella “dose reale” che è la prima stazione dell’arte e, superandola, indirizza le sue ricerche verso astratte personali musiche di forme e colori.
Armonici spazi, timbrici luminosi accordi, delicatissime simpatie tonali e cromatiche, liriche emotive risonanze di un passato ancor vivo lo pongono, meritatamente, tra i più coerenti ed interessanti pittori di oggi.
Walter Lazzaro
(Mai Taclì N. 5/6-1984)