“Dedicato ai Cherenini”
Ce ne sono ancora in giro?
Ho notato che difficilmente si trova qualcosa di scritto su questa interessantissima cittadina, per esempio, il nostro Mai Tacli con i suoi validi collaboratori è colmo di dotte e gradevoli letture ma soprattutto di episodi che si svolgono in Asmara, a Decameré, qualche volta anche a Massaua ma raramente a Cheren, come se questo paese non avesse storia! Mi viene in mente la frase usata dagli antichi per indicare la zona sconosciuta a sud dell’Egitto: ”Hic sunt leones”. Recentemente qualche libro fa rivivere episodi di feste al CUA, ricordi di scuola, amori, insomma scene della nostra gioventù ma di solito con lo sfondo dell’altopiano, mai vissute a Cheren.
1890 - Cheren: i primi coloni italiani. (Archivio fotografico di Eros Chiasserini)
Secondo il mio modesto punto di vista era invece la più piacevole tra le città Eritree. Collocata a circa 1300 metri sul livello del mare, tra l’acrocoro Asmarino e il bassopiano (che inizia proprio ai piedi del Dongolas), Cheren è per questo il punto d’incontro di razze, lingue e religioni. La ricordo, nel periodo della mia infanzia, l’immediato dopo guerra, come una graziosa e amabile cittadina: pulita, ordinata ma soprattutto piena di colore, di fiori, di viali alberati e, la notte, con un cielo che ormai qui in Italia raramente riusciamo a vedere. Allora Cheren era popolata da circa un migliaio d’Italiani, in parte vecchi residenti: gli Ertola, i Riva, i Toti, i De Ponti, ecc. ma anche da molti sfollati o ex Gondarini. La comunità si era inserita così bene che ormai faceva parte integrale di questa cittadina: alcuni parlavano il dialetto locale, il tigrè, molti possedevano aziende, negozi o attività di varia natura. Indicativo il fatto che anche il piccolo cimitero civile, nella piana di Megareh, con il passare degli anni, si era abbellito di grandi tombe di famiglia, di piante e di fiori.
Ricordate gli artigiani che componevano il variopinto gruppo d’Italiani? I calzolai calabresi Malara e Fedele: con le loro scarpe su misura e le tomaie tagliate e cucite a mano! L’officina Favaro: dove si resuscitavano motori ormai esausti, e si rettificavano a mano bronzine, colli d’oca e testate. Il fornaio Camozzi: ancora oggi mi chiedo come faceva il pane ad essere così buono!. L’ortolano Beltrame, i bar Sarasi, Senahit e Gabresi. L’alimentari Santini. L’interessante operazione della raccolta di veleno, ”munto” da centinaia di serpenti nell’azienda di Ballardini, gli albergatori Sillato, Romanini, Pascuzzi… il Grand Hotel.
A Cheren si trovava di tutto: fotografi, esportatori d’animali esotici, agricoltori, impresari; per esempio ricordo Cavallacci, il toscano, che oltre ad avere un piccolo ma singolare zoo in casa, faceva il fabbro e spesso si sentiva vociare con il ragazzino che girava la forgia: “diauolett mena, menaaaa”. I bravi ed esperti medici dell’ospedale civile: i fratelli slavi Sentocnik con l’infermiere Andreotti, Nardoni e credo Vigili per qualche tempo. Numerosa era anche la comunità Greca: le famiglie Paputzachis, Zanos, e poi, l’egiziano Hefnì, con il suo bazar, dove il “window shopping” era un piacevole passatempo per chi faceva il giro del palazzo Riva. L’Inghilterra era rappresentata da Mr. Hodgson insegnante d’inglese e, la domenica, arbitro alle partite di calcio. Tutto sommato era gente che con grande capacità e maestria viveva svolgendo lavori utili alla città e in armonia con la popolazione locale.
In quei tempi a Cheren Lalai, sulla strada per Agordat, l’imprenditore Guido De Rossi aveva la grande industria per lo sfruttamento della palma dum (cosa non si utilizzava in Eritrea?). Il frutto raccolto nel bassopiano si usava al cento per cento: dal mallo si estraeva l’alcool, il guscio si bruciava per produrre l’energia elettrica, dalla noce tagliata a fette si tornivano i bottoni e infine lo scarto macinato si adoperava come mangime animale. Era una pianta molto utile perché anche il tronco, di legno durissimo, si usava nelle varie costruzioni rurali e le foglie essiccate erano impiegate per annodare stuoie e cesti.
Per le vacanze, erano numerose le famiglie che partivano in carovana verso Mersa Cub Cub. Il viaggio durava tutto il giorno, rare le auto con il doppio differenziale quindi molte le insabbiature. Si attraversavano pianure e torrenti verso Afabet, sulla strada per Nacfa, luoghi pieni di selvaggina: facoceri, antilopi, gazzelle e nuvole di galline faraone. La spiaggia si trovava a nord di Massaua e una volta arrivati, ai piedi di dune bianchissime, si piantavano tende e si costruivano “racube”. La
vacanza durava anche un mese con l’alternarsi d’arrivi e partenze. Erano giorni spensierati e vissuti veramente a contatto della natura, come si cerca di fare oggi nelle aziende di agri-turismo, ma… vogliamo paragonare?. Nella tendopoli vigevano regole di convivenza alquanto rigide, per esempio, agli ordini del “nacuda”, capo pescatore (di solito il vecchio Dondulachis), bisognava partecipare ogni mattina al tiro delle reti, questo dava diritto alla porzione giornaliera di pesce fresco. La sera tutti intorno al grande falò in buona compagnia, alcune volte capitava anche di essere visitati da famiglie di Rasciaida, tribù con particolari costumi che viveva sulla costa pescando e “a tempo perso” facendo del contrabbando.
Una ricorrenza che univa molte famiglie era il giorno della Madonnina del Dari, quella che si trova ancora oggi all’interno del maestoso baobab nei pressi delle ex aziende De Ponti. Dopo la messa, la scampagnata! ci si riversava sul torrente sabbioso e per tutta la giornata si stava insieme, con i ragazzini che giocavano e si divertivano all’ombra dei sicomori e dei mango; a pranzo grandi abbuffate di “zighini” portato o preparato per tutti dalla sig.ra Bertocci.
Cheren 1970 - L’entrata del Grand Hotel.
Asmara era lontana e sconosciuta, l’arrivo della corriera, che giornalmente collegava i due centri, era motivo di curiosità quasi come l’arrivo della diligenza nei film di Tom Mix. La scena si svolgeva di fronte al bar Piemonte ed era affollata da curiosi, facchini, carrette, venditori di arachidi o di chichingioli e di ragazzi che, arrampicati sul tetto dell’autobus, scaricava valigie e fagotti.
Cheren era un grande giardino sperimentale perché i viali, allora, erano fiancheggiati da alberi bellissimi, importati da tutto il mondo da un Italiano che, con passione e competenza, si occupò per anni del locale orto botanico. Acacie, ficus, palissandri, bouganville, sciscibana e molte altre specie, che purtroppo non ho la possibilità di rammentare, facevano di questo paese un meraviglioso parco. Erano anche molto belle le aziende sorte nei dintorni: Ertola, Michelazzo, i tre tucul e molte altre. Chi non ricorda il maestoso viale di mango nel giardino di Ertola? Con le sue panchine di granito dove ci si poteva sedere al fresco mangiando frutti profumati acquistati nel grazioso chiosco. Le anone e gli zaituni, che fragranze! …... Dove sei mia dolce Cheren?
A una manciata di chilometri Elaberet. Valle incantevole, dove l’operosità e la genialità di De Nadai era riuscita a rilanciare le Aziende dei Casciani e degli Acquisto creando una “farm” di quasi 1500 ettari. All’inizio realizzò un complesso e moderno sistema di dighe che consentiva l’irrigazione di quasi tutta l’azienda, le pietraie dove crescevano soltanto rovi erano trasformate in agrumeti, vigneti e campi di erba medica. Fu edificata una stalla moderna con annesso caseificio, dove si produceva latte imbottigliato e dell’ottimo formaggio e, inoltre, la porcilaia, la cantina per il vino, il conservificio, la segheria, il capannone di lavorazione con annessi i frigoriferi, l’officina e gli uffici. Completavano il tutto le graziose abitazioni e il villaggio per le maestranze, la chiesa e le scuole elementari . Ovunque il tocco di colore: le bouganville!.
Devo ora, tornando a Cheren scrivere necessariamente del mercato! Una tavolozza di colori, gente di tutte le tribù, Bileni, Beni Amer (capigliatura afro e forchettone di legno), Cunama, Sudanesi, ragazze stupende avvolte nelle loro leggerissime stoffe, cammelli carichi di mercanzie, capre, asini e poi negozi dove si trovava di tutto e dove il profumo di incenso si fondeva con l’aroma del the appena fatto. I “duccan” di frutta e verdura, di granaglie, pasta di tamarindo, datteri, frutti di dum e di baobab (accat e ghilleb). Nei piccoli porticati c’erano, e sicuramente ci sono ancora, i sarti con le loro vecchie Necchi o Singer anteguerra i quali pedalando vigorosamente non negavano un sorriso al passante.
Un cenno sull’interessante via degli orafi! il “ponte vecchio Cherenino”. Ricordo che scendeva dalla piazza della moschea e aveva sia a destra sia a sinistra numerosi laboratori dove abili artigiani fondevano l’oro con la fiamma di un cannello e creavano, accucciati sulle loro stuoie, gioielli in filigrana che erano allora ricercati dalle spose Eritree e dai turisti. Eri invitato a sederti sui bassi sgabelli per scambiare due chiacchiere, il the alla menta, servito bollente nei bicchieri dalla vita stretta, arrivava per tutti. Gioviali e educati, questi artisti! sempre disponibili e pronti ad aprire “la trattativa” che doveva necessariamente essere condotta prima di ogni acquisto. Non si conosceva la norma del prezzo fisso; era scortesia applicarla e non dare all’acquirente e al venditore il piacere di contrattare, senz’altro il modo migliore per conoscersi, e consolidare amicizie. Alla fine il furbacchione gongolava di gioia se poteva affermare che eri un suo vecchio cliente.
Sempre interessante la cerimonia commemorativa al cimitero degli eroi morti nella seconda guerra mondiale. File interminabili di croci argentate dove giacevano i corpi di giovani soldati Italiani e Ascari Eritrei. Nel mese di Novembre si celebrava la Santa Messa alla presenza delle autorità. Quello che suscitava emozione era la presenza, vicino l’altare, di qualche anziano reduce Eritreo che per l’occasione indossava la vecchia divisa, i gambali di cuoio, le medaglie e con grande dignità partecipava alla funzione. Barbe bianche, volti rugosi, qualcuno mutilato, assorti e fieri lì davanti a tutti per onorare il ricordo dei morti. Quel giorno si vedeva sventolare la bandiera tricolore. Il Fitaurari Kafel, uno dei più decorati, ad un certo punto della messa scattava sull’attenti e sicuramente anche a lui veniva un nodo alla gola.
Nel 1941 Cheren fu teatro di una gigantesca battaglia che contrappose, tra le gole del Dongolas, l’esercito Inglese e in difesa della colonia, quello Italo-Eritreo. Churchill, nelle sue memorie, cita questo episodio come il più cruento delle guerre d’Africa Durò circa due mesi e una volta caduto il fronte gli inglesi occuparono in una baleno tutta l’Eritrea.
Cheren è una città piena di storia e di ricordi importanti. Come non rammentare il Generale Lorenzini o i commissari civili che hanno gestito con tanta bravura questa cittadina?.
Tra i più anziani qualcuno ricorderà il galoppatoio dove si svolgevano nel dopo guerra gare organizzate dal Generale Antonelli, ed anche la bocciofila, luogo di svago dove ha ballato tutta la generazione dei Cherenini. Questo locale era inserito sulle rive di un torrente, in un bosco di enormi Sicomori. Quanto verde c’era allora. Il periodo delle piogge si aspettava con gioia e non con fastidio come qui in Europa. Le “bestioline rosse”, cocciniglie vellutate che si trovavano tra l’erba, erano raccolte dai ragazzi insieme alle farfalle che ricordo erano di colori stupendi. Quanti amici d’infanzia! Quanti compagni di scuola in quelle aule dell’Edmondo De Amicis! .
Un pensiero corre alla chiesa di Sant’Antonio, a Padre Fortunato, alla graziosa grotta di pietre che custodiva la statua della Madonna di Fatima e chissà perché alla musica dolce e solenne della funzione serale, la benedizione, quella che ad un certo punto raccoglieva intorno all’organo le suore e le ragazze del coro.
Ho tenuto fuori da queste piccole schegge Cherenine, il triste e angoscioso periodo degli sciftà, dei partiti, delle colonne scortate che si dovettero organizzare per raggiungere la capitale, delle aziende assediate dai briganti , insomma del periodo buio. Cheren, proprio per la sua collocazione, divenne purtroppo il punto di scontro tra le diverse fazioni e lentamente si trasformò, le famiglie a poco a poco “emigrarono”, prima in Asmara poi con il tempo partirono verso la sconosciuta Italia …ma questa è un’altra storia.
Cosa dire per chiudere? Mah! tutto è cambiato, distrutto, migliaia i morti, tanti i danni materiali alle ricchezze dell’Eritrea ma, soprattutto tante le sofferenze nei cuori di quei popoli. Il futuro? Difficile considerando la situazione attuale ma una speranza sì dobbiamo averla: che si depongano le armi, cessino i lutti, gli odi e le vendette. Che ritorni almeno la pace.
A.Oliveti
(Mai Taclì N. 2-2002)