1932, l’incendio della motonave Georges Philippar
S.O.S. FUOCO A BORDO
di Raffaele Laurenzi
Quale intrigo internazionale si nascondeva dietro l’incendio che nel maggio del 1932, davanti a capo Guardafui, distrusse la motonave francese Georges Philippar, in navigazione da Yokohama a Marsiglia? I giornali a lungo analizzarono il caso e formularono ipotesi, al centro delle quali vi erano un giornalista scomodo e i servizi segreti dell’Unione Sovietica. Ma la vera causa fu un banale cortocircuito. Che costò la vita a 50 persone.
Capo Guardafui, la famigerata punta estrema del Corno d’Africa, che come un dio marino attirava le navi sulle sue fatali scogliere, la notte fra il 15 e il 16 maggio 1932 fece un’eccezione: per distruggere la motonave francese Georges Philippar, si servì del fuoco.
La fine della Philippar suscitò vasto clamore, perché si trattava di una bella nave, perché era al suo primo viaggio, perché vi furono molte vittime, ma soprattutto perché il sospetto di un attentato aleggiò a lungo su quella tragedia.
Grazie al telegrafo, la notizia del disastro giunse in Europa il giorno stesso. Il Corriere della Sera del 17 maggio titolò: «Gigantesco rogo nell'oceano Indiano», e aggiunse nel sommario: «La più grande motonave francese distrutta dalle fiamme».
La Philippar era grande davvero: lunga 171 metri e mezzo, larga 20,8, 17.360 tonnellate di stazza lorda; in sala macchine pulsava una coppia di motori Diesel a due tempi della Sulzer Bros di Winterthur, Svizzera, che forniva alle due eliche 11.000 cavalli, quanto occorreva per assicurare alla nave una velocità di crociera di 16 nodi e massima di 18 (33 km/h). Le sue lussuose cabine potevano ospitare 396 passeggeri: 196 in prima classe, 110 in seconda e 90 in terza, assistiti da 250 uomini d’equipaggio. Insomma, una nave moderna, veloce, confortevole, che avrebbe reso persino piacevole la lunga permanenza in mare di chi doveva recarsi nelle colonie dell’estremo oriente.
Presagi inascoltati
La Compagnie des Messageries Maritimes l’aveva commissionata ai Cantieri Navali dell'Atlantico di Saint Nazaire: doveva rimpiazzare il piroscafo Paul Lecot, perduto il 21 dicembre 1928 in seguito a un incendio causato da un cortocircuito, mentre era nel bacino di carenaggio di Marsiglia.
Ai superstiziosi del mare non sfuggì la sinistra coincidenza: dopo che furono rese note le modalità dell’incendio della Philippar, sembrò infatti naturale pensare che le acque di capo Guardafui fossero state scelte dal destino per portare a termine i suoi imperscrutabili disegni.
Il 29 novembre 1930 il destino confermò i suoi piani con un ulteriore segno premonitore: durante le opere di allestimento della Philippar, un incendio, innescato da un cortocircuito nella stiva frigorifero, causò grossi danni e un ritardo nel completamento dei lavori.
A questo punto, gli ingegneri avrebbero dovuto porsi qualche domanda sulla sicurezza degli impianti di bordo. Non fu così. Impostata nel dicembre del 1929, la Philippar fu varata il 6 novembre del 1931, senza che fosse stata fatta una revisione dell’intero sistema di distribuzione dell’energia elettrica a bordo.
La cerimonia del battesimo si svolse con tutti i crismi della tradizione. Una madrina tagliò il nastro e una preziosa bottiglia di Bollinger Special Cuvée andò sprecata sulla prua della nave, che scivolò in acqua tra gli applausi, disegnando grandi anelli di spuma bianca.
Già, ma chi era questo Georges Philippar che diede il nome alla nave? Un eroe di guerra, uno scienziato insigne, forse un grande artista? Niente di tutto questo: Philippar era il presidente vivo e vegeto delle Messageries Maritimes.
È opinione comune che sia sconveniente intitolare una via o erigere un monumento a un personaggio vivente. Lo stesso doveva valere per una nave. Tuttavia monsieur Philippar non aveva intenzione di aspettare la propria morte perché gli fosse intitolato un transatlantico. Considerato come andarono a finire le cose, dobbiamo riconoscere che i superstiziosi avevano visto giusto.
Lievi incidenti, gravi indizi
Indifferente ai cattivi auspici, il 19 gennaio 1932 la Georges Philippar lasciò il porto di Saint Nazaire, alla foce della Loira, per il viaggio inaugurale a Marsiglia, sua base operativa, facendo sosta a Lisbona e a Ceuta. Il presidente Georges Philippar salì a bordo, seguito da un gran numero di invitati: dirigenti della società di navigazione, industriali, uomini politici e gli immancabili giornalisti.
Nel porto di Marsiglia, durante i rifornimenti in vista del primo viaggio della Philippar in estremo oriente, si svolse un’azione di polizia a cui le autorità non diedero rilievo per non allarmare i viaggiatori: una mattina, alcuni automezzi della Gendarmerie si arrestarono sulla banchina; ne scesero numerosi agenti, che salirono a bordo e perquisirono la nave da cima a fondo. Un messaggio, anonimo ma circostanziato, aveva avvisato il ministero francese dell’Interno che tra le merci caricate a bordo c’era una bomba. Non venne trovato neppure un petardo e finalmente il 26 febbraio la Philippar poté lasciare Marsiglia per il suo primo viaggio, destinazione Yokohama, Giappone.
La possibilità di un attentato venne presa maledettamente sul serio dal governo, tanto che a Porto Said la Philippar fu sottoposta a una nuova ispezione. Quattro lance della polizia marittima le fecero corona impedendo a ogni imbarcazione di avvicinarsi. Nessuno doveva salire a bordo, nessuna merce doveva essere caricata. Tutto si svolse con discrezione, ma qualcuno a terra notò ugualmente l’intervento della polizia e alla fine si seppe in che cosa consisteva la minaccia: un ordigno a orologeria di notevole potenza, regolato per esplodere nella stiva della Philippar durante il transito della motonave nel canale di Suez, che in questo modo sarebbe rimasto bloccato per mesi.
Un complotto dei bolscevichi
Quale potenza straniera aveva interesse a ostacolare i collegamenti della Francia con l'estremo Oriente e le sue colonie più lontane? «Agenti sovietici», scrissero i giornali, «per impedire che le forze nazionaliste, che si opponevano all’avanzata dei comunisti in Cina, fossero rifornite di armi». In seguito, un comunicato delle Messageries Maritimes avrebbe smentito l’intera spy story, ma con poco successo: la tesi di un complotto era assai più affascinante da credere di uno stupido cortocircuito, più consono a una «carretta» del mare che a una lussuosa motonave francese.
La Philippar giunse a Saigon, oggi Ho Chi Min, il 22 marzo; il 29 era a Hong Kong, il 1° aprile a Shanghai, infine il giorno 14 a Yokohama, capolinea, proprio nel mezzo di una contesa tra Giappone e Cina (poche settimane prima si era combattuto un conflitto armato, il cosiddetto «Incidente di Shanghai»). Nelle principali città giapponesi si svolgevano manifestazioni. Insomma, non tirava aria buona per una nave già sospettata di essere nel mirino del terrorismo. Perciò il comandante Vicq, prudentemente, decise di mollare gli ormeggi al più presto.
Durante la crociera di ritorno, accadde un fattio che, in seguito, avrebbe alimentato altri sospetti e illazioni sulla fine della nave:
per ben due volte scattò l’allarme della camera blindata.
Lingotti d’oro nella stiva
Ci fu molta preoccupazione a bordo: a Saigon erano stati caricati infatti quattro milioni di franchi in lingotti d'oro destinati alla banca dell’Indocina a Parigi. Gli ufficiali fecero controlli, interrogarono il personale di bordo, niente di anomalo fu rilevato. L’allarme era scattato per qualche problema elettrico, dissero gli elettricisti, ormai abituati ai ripetuti capricci di un impianto mal concepito, alimentato in corrente continua a 220 volt.
Erano le ore 23 del 10 maggio quando la Georges Philippar lasciò Colombo, isola di Ceylon, attuale Sri Lanka, diretta a Gibuti, porto della Somalia francese sul golfo di Aden. A bordo viaggiavano 514 passeggeri (qualcuno di meno secondo alcune fonti) e 253 uomini d’equipaggio (un po’ di più secondo altre fonti).
La sera del 15 maggio, giorno di Pentecoste, c’era festa a bordo. Alle 1.30 del 16 maggio l’orchestra suonò «Mon Paris» di Boyer e chiuse la serata. I passeggeri rimasti si avviarono svogliatamente verso !e cabine, mentre alle loro spalle si spegnevano le luci della sala. Alcuni signori si trattennero sulla passeggiata, per fumare un’ultima sigaretta e gustare la brezza appoggiati ai corrimano. Un passeggero indicò un bagliore lontano, direzione ore 11: «Che cos’è?» domandò. «È il faro di Guardafui», spiegò un ufficiale di passaggio. E aggiunse: «Ci guiderà attraverso lo stretto di Socotra.»
Dopodiché, alla spicciolata, gli ultimi nottambuli si ritirarono nelle loro cabine.
Fumo sul ponte D
Si ritirò anche madame Valentin, passeggera di riguardo, sussurrando le note di «Mon Paris», che le erano rimaste nell’orecchio. Quando aprì la porta della sua cabina di prima classe del ponte D, sulla verticale del ponte di comando, fu assalita da un acre odore di gomma bruciata, a cui il suo esausto Chanel n.5 non potè opporsi. La donna si guardò intorno: nastri di fumo filtravano dalla porta della cabina numero 6, accanto alla sua, che non era occupata. Poi la luce elettrica si mise a vacillare. Madame Valentin capì il pericolo, gridò «Al fuoco!» con voce strozzata e corse ad avvisare l’ufficiale di guardia.
Le squadre antincendio entrarono subito in azione con gli estintori. L’allarme generale non fu fatto suonare; non si voleva allarmare i passeggeri per un principio d’incendio che poteva essere subito domato con i mezzi di bordo.
Fu un errore. Il fuoco riprese vigore e si mise a correre, sovralimentato del vento, seguendo la traccia dell’impianto elettrico. In pochi minuti un fumo denso saturò i corridoi respingendo gli uomini delle squadre antincendio. L’ufficiale di guardia capì che il fuoco era sfuggito al controllo e corse a riferire al comandante. Erano da poco passate le 2.00 e si erano persi minuti preziosi. Si udivano lamenti e colpi di tosse; i passeggeri del ponte D, svegliati dai rumori e dal fumo, abbandonavano le cabine in fretta e furia.
Tanto legno da ardere
Il comandante Vicq conosceva bene la nave. Considerò il fatto che le cabine, soprattutto quelle di prima classe, erano un trionfo di boiserie. I ponti erano collegati tra loro da una scalinata di legno massiccio, rivestimenti di legno nascondevano il freddo metallo delle pareti divisorie, i saloni erano decorati con soffitti a cassettoni. Il calore avrebbe infiammato tutto quel legno come un cerino; anzi, l'avrebbe fatto esplodere per la rapidità della combustione. Ogni tentativo di opporsi alle fiamme e al fumo sarebbe stato vano.
Non gli restò che lanciare l’S.O.S. e azionare l'allarme generale, che però non funzionò, perché nel frattempo gli elettricisti avevano interrotto l’erogazione dellla corrente. Anche le comunicazioni tramite interfono risultarono perciò interrotte. L'aria era irrespirabile e nel buio generale c’erano passeggeri che fuggivano a tentoni attraverso i corridoi, ma nella direzione sbagliata… Qualcuno dormiva ancora nella sua cabina...
Il comandante avviò una serie di manovre per facilitare l’abbandono della nave. Ordinò al timoniere di portare la prua all’orza fino a disporre sottovento il bordo di dritta, dove era divampato l’incendio. Fece vuotare in mare le cisterne della nafta. Fece arrestare i motori. Fece fermare la nave, per calare in mare le 16 scialuppe di salvataggio, di cui 12 allineate sul ponte del cassero. Ma le scialuppe, sebbene ancora intatte, non erano tutte raggiungibili per via del fuoco e del fumo. Fu possibile metterne in acqua soltanto sei.
«François, où es-tu? Répondre!»
Vennero chiuse le porte stagne, ultima resistenza possibile contro il fumo e probabilmente trappola mortale per gli ultimi fuggitivi.
Alle 6.00 l’incendio si era impadronito della Georges Philippar dal ponte di comando fino a mezza poppa.
Le fiamme e la paura avevano diviso i genitori dai figli, i mariti dalle mogli, gli amici dagli amici. Impossibile controllare il panico che si era diffuso tra i passeggeri. Si sentivano gritare nomi, «François!», «Colette!», «Antoine!», e c'era chi, dalle lance di salvataggio, chiamava i propri congiunti rimasti sulla nave, illuminata da bagliori sinistri. Inutilmente, perché l'incendio faceva vibrare l’aria con il suo crepitio, che copriva le voci e accompagnava la fine della Georges Philippar come la colonna sonora di un film drammatico.
In tutto questo inferno, la maggior parte dell’equipaggio mantenne il controllo dei nervi. Ufficiali, macchinisti, marinai e personale alberghiero guidarono le operazioni di imbarco sulle poche scialuppe disponibili nel modo più ordinato possibile. Vennero calati canapi e biscagline lungo le fiancate per offrire un appiglio a chi abbandonava la nave, si distribuirono cinture di salvataggio, si aiutarono gli anziani e i bambini. Una squadra di marinai, dopo aver recuperato dei barili vuoti, improvvisò delle zattere, perché era chiaro che le scialuppe non potevano bastare per tutti. C'erano passeggeri che, ancora in pigiama, si gettavano direttamente dagli oblò o si calavano appesi ai canapi. Alcuni annegarono.
Prima le donne e i bambini
Le operazioni di evacuazione, benché caotiche, si svolsero secondo l’antico protocollo: «prima le donne e i bambini, poi gli uomini, ultimo l'equipaggio». Il comandante Vicq lasciò la nave dopo essersi assicurato che nessuno era stato abbandonato a bordo, se non i morti. Aveva la divisa bruciacchiata, ustioni al volto, alle mani, alle gambe.
La stazione radio presso il faro di Guardafui aveva captato i messaggi di S.O.S. della Philippar. All’alba, dai 245 metri di altezza di quello sperone calcareo, la guarnigione italiana di stanza al faro osservò con preoccupazione la colonna di fumo nero che s’innalzava circa sei miglia al largo del «capo maledetto».
L’S.O.S. venne raccolto da tre navi, che lo rilanciarono a loro volta. La prima ad arrivare sul luogo del disastro, guidata dalla colonna di fumo nero che s’innalzava dalla Philippar, fu la petroliera russa Sovietskaja Helt, che subito mise in acqua le scialuppe per raccogliere i naufraghi. Poche ore più tardi giunsero il mercantile britannico Contractor e la nave danese Mahsud.
Il comandante della Sovetskaja Helt ripartì nella tarda mattinata dopo essersi assicurato che non vi fosse più nessuno in acqua. Ma ora si presentava un problema: come sfamare e assistere oltre 400 naufraghi, alcuni dei quali feriti o intossicati, ammucchiati sul ponte di una petroliera? Fortunatamente sopraggiunsero altre navi, tra cui il piroscafo francese André Lebon, che presero a bordo i naufraghi della nave russa per portarli a Gibuti, porto della Somalia Francese.
Il Contractor e il Mahsud si diressero invece ad Aden con il resto dei naufraghi. Quelli che morirono durante il trasferimento furono gettati in mare. Anche per questo motivo, il conto delle vittime richiese molti giorni e non poté mai essere preciso; i sopravvissuti furono 676.
Mentre si allontanavano, ormai in salvo, i naufraghi lanciarono un ultimo sguardo alla Philippar, ridotta a un gigantesco braciere. Uno di essi si fece il segno della croce, subito imitato dagli altri, estremo gesto di pietà verso i compagni di viaggio che il buon dio aveva voluto sacrificare al posto loro.
La testimonianza di Monsieur
I naufraghi sbarcati ad Aden e a Gibuti furono rimpatriati su altre navi dirette in Europa. Nove di questi trovarono ospitalità a bordo del postale giapponese Hakone Maru, che dieci giorni più tardi li sbarcò a Napoli. Tra loro c’era Monsieur Edoardo Faure, che raccontò a un giornalista del Corriere della Sera come aveva potuto salvarsi dall’incendio assieme alla moglie e ai due figli: «Mi imbarcai il due maggio a Saigon a bordo del Philippar occupando due cabine contigue di prima classe del ponte D, cioè di quello più in basso, ed a ciò si deve la nostra salvezza. (...) Dormivo profondamente, quando, verso le 2.30, fui svegliato da mia moglie, che aveva avvertito odore di bruciato nella sua cabina e si era svegliata di soprassalto. Ella aprì la porta della cabina che dava nel corridoio di comunicazione di terza classe e si avvide che il fumo penetrava dappertutto. Nessun marinaio diede l'allarme, e tantomeno funzionarono le suonerie elettriche. (...) Vestimmo in fretta i bambini, avviandoci verso la scala che conduceva al salone da pranzo. Esso era già, però, in fiamme e quasi completamente distrutto; sicché fummo costretti a ritornare indietro (...). Il fumo filtrava dalle condutture e si diffondeva dappertutto. Ogni via di salvezza ci era preclusa; fu allora che pensai di lanciarmi in mare dal finestrino. Mi arrampicai e sporsi la testa fuori: ma uno spettacolo pauroso si presentò dinanzi ai miei occhi. Fiamme altissime si elevavano dalla poppa della nave e sui ponti
posteriori, quasi a lambire il cielo. Un marinaio, che era intento a preparare un’imbarcazione di salvataggio, mi sollevò sul ponte C. Fu facile così trarre in salvo mia moglie e i bambini. Lo stesso marinaio ci fornì le cinture di salvataggio e ci invitò ad attendere che l’imbarcazione fosse pronta. Sul ponte C, nel buio che regnava, perché le dinamo avevano cessato di funzionare, scorgemmo altri pochi passeggeri. Soltanto dopo quattro ore scendemmo in una scialuppa di salvataggio; e verso le 7 del mattino fummo raccolti dal piroscafo Contractor, giunto con altri sul posto. Dopo 36 ore sbarcammo ad Aden, porto dove ci trasbordarono sulla Hakone Maru.»
Tre giorni di agonia
La Philippar andò alla deriva col suo carico di morti. Intorno al relitto in fiamme, galleggiavano scialuppe vuote, cinture di salvataggio, chiazze di nafta. Ma benché ridotta a un tizzone ardente, e benché sbandata a sinistra di quasi venti gradi, non ebbe fretta di affondare: si lasciò trasportare dai venti e dalle correnti per tre giorni prima di arrendersi.
Il 19 maggio, ancora fumante, la Philippar fu avvistata presso la costa yemenita. Nelle prime ore del pomeriggio dello stesso giorno, sbandò ancor più sul fianco sinistro. Poi rapidamente si rovesciò. Rimase ancora un poco con la chiglia rivolta al cielo e in questa posizione si inabissò. Da quando erano stati fermati i motori, a cinque o sei miglia da capo Guardafui, la Georges Philippar aveva percorso 160 miglia marine, circa 290 chilometri.
Tutti si chiesero, naturalmente, che cosa avesse causato l'incendio. La prima ipotesi, sussurrata dagli elettricisti di bordo e suffragata da molte testimonianze, non ammetteva dubbi: cortocircuito.
All'epoca, gli impianti elettrici non erano sicuri. La formazione tecnica dei progettisti era approssimativa; i materiali disponibili non erano studiati in modo specifico per applicazioni in campo navale; non vi erano norme standardizzate di riferimento. Basti dire che i cavi elettrici erano isolati con un rivestimento di gomma, spesso mista a guttaperca, avvolta in strati di carta impregnata di miscele resinose: non era il massimo contro il calore e l’umidità. Ancor più inadeguati erano i cablaggi, la cui efficienza era affidata alla manualità e alla competenza degli installatori: bastava una vite stretta male per causare un surriscaldamento o un cortocircuito. I quadri elettrici erano rudimentali, i fusibili erano semplici fili di piombo o di stagno serrati tra due viti. Il problema era comune a tutte le navi costruite prima della seconda guerra mondiale. Infatti gli impianti elettrici erano il principale motivo d’incendio a bordo.
Nel caso della Philippar, la verità venne a galla un poco alla volta, facendosi strada faticosamente tra le più fantasiose ipotesi di un complotto internazionale. Si venne a sapere che l'impianto elettrico aveva dato grattacapi fin dall’inizio. Quando l’allestimento della Philippar era in corso, vi furono discussioni tra i tecnici, seguite da riparazioni, modifiche, sostituzioni.
Dopo la partenza da Marsiglia, gli elettricisti erano dovuti intervenire più volte e vi erano stati perfino due principi d'incendio, subito domati con i mezzi di bordo. Il comandante Vicq ebbe la delicatezza di non darne notizia sul giornale di bordo: ciò avrebbero costituito un documento scomodo per la società di navigazione, che sarebbe stata chiamata a pagare premi assicurativi più alti.
Londres doveva morire
Tuttavia si stentò a credere che un banale cortocircuito avesse causato la perdita di cinquanta vite umane e di una lussuosa motonave costata la bellezza di 120 milioni di franchi. La teoria dell’incendio doloso ordito da una potenza straniera, invece, sapientemente alimentata dalla stampa francese, attecchì facilmente nell’opinione pubblica, forse perché sembrò più appropriata a una nazione convinta della propria Grandeur.
Gli argomenti per sostenere la teoria della cospirazione non mancarono e gravitarono principalmente intorno al giornalista e scrittore francese Albert Londres, una delle circa cinquanta vittime della Philippar, ufficialmente disperso, a cui qualcuno voleva chiudere la bocca per sempre.
Un testimone raccontò di averlo sentito gridare aiuto dalla sua cabina, un altro di averlo visto calarsi dall’oblò appeso a una manichetta antincendio che penzolava lungo la murata. Poi fu perso di vista. Probabilmente annegato. Aveva 48 anni e la sua fama aveva varcato i confini nazionali. Merito delle sue inchieste e delle sue denunce, che svelavano le manovre segrete delle grandi potenze e scuotevano le coscienze dell’establishment borghese con crudi resoconti sui manicomi, sul metodi disumani del colonialismo francese o sugli orrori del bagno penale della Caienna, che venne poi chiuso. Indubbiamente un personaggio scomodo.
Londres si era imbarcato sulla Philippar a Yokohama dopo un soggiorno in Cina, paese in subbuglio in seguito all’occupazione giapponese della Manciuria e alla guerra di Shanghai tra cinesi e giapponesi.
Una borsa misteriosa
Si disse che Londres avesse con sé una borse di documenti scottanti e articoli per il quotidiano Le Journal, in cui si raccontava di un traffico di armi che s’intrecciava col traffico della droga e con gli interessi politici della Russia bolscevica. Perciò qualcuno avrebbe deciso di eliminarlo, a costo d’incendiare una nave.
Le trame oscure non finivano qui. Con Londres viaggiavano due suoi amici, l'ufficiale Alfred Lang-Willar e sua moglie Madeleine, che si salvarono e trovarono un passaggio fino a Brindisi. I due erano sicuramente al corrente del lavoro svolto da Londres in Cina, forse custodivano suoi documenti o gli articoli che egli intendeva pubblicare. Un ricco editore francese, amico di Londres, mandò un aereo a prenderli a Brindisi. Non un aereo qualsiasi: il Farman F.190 dall’asso Marcel Goulette, noto per una serie di primati aviatori, eroe di guerra, cavaliere della Legion d’Onore, accompagnato dal suo copilota.
I quattro ripartirono da Brindisi il 25 maggio diretti a Marsiglia. Il piano di volo prevedeva uno scalo all’Aeroporto del Littorio. Non vi arrivarono mai: i rottami dell'aereo furono trovati sui monti Ernici, comune di Veroli, una sessantina di chilometri a sud di Roma. Si pensò subito a un attentato, corollario del teorema che voleva la Philippar incendiata dai sicari di Londres. Non c'era neppure uno straccio di prova per sostenerlo. Tuttavia l'ipotesi trovò credito sulla stampa, come conseguenza di una suggestione collettiva.
I francesi non volevano credere che una così singolare concatenazione di eventi potesse essere stata determinata dal Caso, unicamente dal Caso.