Riflessione

Vagabondando tra vecchie letture riguardanti l’Etiopia, mi è capitato di leggere un rapporto redatto da lord Buxton per conto della Società Antischiavista Britannica nel 1932 in cui l’autore affermava che la schiavitù era la base dell’intero sistema economico del paese e che la Società delle Nazioni considerava una tale situazione di ostacolo all’ammissione dell’Etiopia.

In un altro rapporto Ludwig Huyn scriveva che... ”l’abissinonon concepisce l’immoralità della schiavitù e che la stessa chiesa copta non ripudia la schiavitù e, pertanto, non capisce perché la SdN miri così intensamente alla sua abolizione”...

Si passa alla descrizione ai diversi aspetti della schiavitù: dai piccoli schiavi domestici dei sacerdoti ai giovinetti che venivano venduti sui mercati d’Arabia, dal servaggio politico (ghebbar) alla schiavitù domestica. Quest’ultima conseguenza di razzie di alcune tribù a danno di altre, mentre il ghebbar (servitù della gleba) derivava dalle conquiste militari che trasformavano le popolazioni in schiavi dopo essersi appropriati di tutte le terre.

Scriveva il Pollera.... ”la condizione degli schiavi domestici è assai triste perchè sono considerati alla stregua di semplici cose o, più propriamente, come animali che il padrone può utilizzare per qualsiasi lavoro e, in caso di unioni tra schiavi, la prole generate appartiene di diritto al padrone...”

Nel 1934 - dico 1934 - il governo di Addis Abeba annunciava alla SdN di avere aperto uffici per la repressione della schiavitù mentre i dati ufficiali erano piuttosto scoraggianti: sui circa due milioni di schiavi censiti in in quell’anno, soltanto poco meno di quattromila erano stati liberati.

Tutto questo mi ha portato a una riflessione (talvolta capita anche a me): l’arrivo degli italiani in Eritrea non soltanto portò una sostanziale tranquillità alle popolazioni locali permettendo loro di coltivare terre e allevare bestiame al riparo di razzie e atti di brigantaggio ma, soprattutto, l’occasione di liberarsi della schiavitù.

Credo che il periodo che va presso a poco dal 1900 al 1935, fu per gli eritrei indubbiamente benefico: conquistarono una certa serenità economica prestando servizio nelle amministrazioni civili e militari, nelle aziende private e in piccole attività indipendenti ed è forse per questo che i “vecchi” eritrei ricordavano con nostalgia la presenza italiana. Prima di allora non avevano mai conosciuto simili tempi di pace e di operosità.

Mi piacerebbe che uno studioso locale, con obiettività, raccontasse la vita degli eritrei durante la colonizzazione italiana fino alla guerra d’Abissinia e all’introduzione delle leggi razziali per far conoscere alle nuove generazioni cos’è veramente stata la presenza dell’Italia in Eritrea. Non oso chiedere una scaglia di riconoscenza, sarebbe troppo, ma uno spicchio di riconoscimento forse gli italiani se lo meriterebbero.

Angra

(Mai Taclì N. 5-2003)