2003: villaggio Genio
Dritto per villaggio Paradiso, a destra il campo di Calcio, a sinistra la chiesa degli Eroi e la strada per villaggio Genio, alle spalle abbiamo lasciato l’ospedale Regina Elena.
E’ una delusione la chiesa chiusa questa mattina chè avrei voluto rientrarci per ritrovare ore e anni della mia vita andata, scaduta, lontana. Domeniche di divertimento, decine di ragazze per l’azione cattolica in piena attività: giochi nel grandissimo cortile, palla prigioniera, ruba bandiera e infine la pallacanestro mirando due cerchi di ferro battuto, niente rete, inchiodati su due tabelloni di tavole di legno asimmetriche, pieni di fessure nelle giunture ma che per noi erano bellissimi, gradito anche palleggiare su un terreno ruvido dove spesso, qualche “sassolino” appena più grande, faceva deviare il palleggio consegnando il pallone nelle mani nemiche… E le recite provate con impegno, il coro per la messa della domenica, la lotteria con premi raccolti dai fedeli che frequentavano le funzioni… e qualche domenica, non solo no dell’azione cattolica ma tanti praticanti, frequentatori la parrocchia, fino ad un certo numero, quanti ce ne potevano entrare al cinema s. Cecilia in viale Mussolini, il cinema della Cattedrale, si partiva in gruppo a piedi per un film che proiettavano apposta per noi. Tante voci, tanto movimento, tanti amici in ogni tempo…
Oggi pare tutto sigillato, deserto, chiuso per… no, non c’è nessun avviso, chiuso per questo o per quel motivo. Chiuso e basta. Non ci fermiamo neppure anche se verrebbe la voglia di chiamare, di scendere dalla macchina e aggrappate alla rete di recinzione chiamare quelle amiche… Silvia, Bianca, Nerina, Lucia, Tersilla, Ester, Maria…o suor Orsolina e padre Placido…No, voltiamo per villaggio Genio e facciamo il giro della grande chiesa… è strano, ma solo ora, trascorsi tutti quei giorni felici e spensierati passando e frequentando gli ingressi aperti sulla strada per Keren, mai avevo avuto occasione di ammirarla dal dietro. È molto grande, è sempre senza campanile, chissà perché poi, non se lo è meritato. Certo ci sono le ragioni per ciò, forse mille ragioni, o solo una che tuttavia non conosco.
2003: dritto per villaggio Paradiso - a destra il campo di calcio - a sinistra la chiesa degli Eroi e
la strada per villaggio Genio - alle spalle l’ospedale Regina Elena.
2003: il restro della chiesa degli Eroi.
Villaggio Genio è proprio qui e pare deserto: solo una caprettina candida simile a un giocattolo è ferma in mezzo a un grande spiazzo, poco più in là un diavoletto accovacciato, immobile anche lui. Chissà i loro pensieri, le loro intenzioni, le prossime mosse (se mai ne faranno che paiono finti) dopo il passaggio della nostra macchina. Non si muovono, no, non lo fanno né quando passiamo loro accanto né guardando nello specchietto retrovisore li vedo “vivi”. Per fortuna ci fermiamo a poca distanza chè siamo arrivate a destinazione e quindi non mi resta il tempo per i “miei” pensieri che ancora non sarebbero felici.
La destinazione di oggi è ritrovare Afaworki, un anziano piantone della Camera di Commercio al fianco del quale ho lavorato per ben sette anni. Ora l’anziano è diventato vecchio (più di me) ed è anche malato seriamente. Voglio vederlo, l’ho cercato e dopo un po’ di giorni di passa parola, l’ho trovato. Anche lui ha saputo di me: mi sta aspettando.
E’ una bassa casetta pitturata di un blu-violaceo, grossi sassi sul tetto per trattenere più sicure le lamiere. Accanto, vicinissime, altre simili cambiano appena nel colore dei muri esterni. Nessuno in giro ma c’è una donna sull’uscio di quella blu che ci fa cenno di essere arrivate. Sorride, è giovane e bella elegante nel vestito nazionale ricamato d’oro, forse quello delle grandi occasioni.
Sono molto contenta di rivedere una persona cara, una persona che ha frequentato la mia strada. Sono meno contenta quando, fatto il primo passo giù dalla macchina, pesto l’unica cacca di tutta Asmara che in terra, per ogni via, non esiste l’ombra di una sporcizia: un cane, un gatto appena passato? La ragazza se ne avvede immediatamente e tra il mortificato e il riso trattenuto, mi viene veloce incontro mentre strofino la suola sulla terra. Parla l’italiano, si scusa, ma finisce che stiamo solo ridendo.
Afaworki è sotto un candido lenzuolo srdaiato su un’angareb in una piccola stanza semibuia e allunga le mani ossute e poco tremanti verso di me: “Signorina, signorina…” dice e io accelero il passo per stringerle, ma piano, paiono tanto fragili! La moglie e un’altra ragazza ci invitano a sederci e sono due poltroncine di legno e di corda di agave. Hanno subito pronto un ciai profumato di cannella e di gingibil, dolcissimo e bollente. Parlano l’italiano, sono premurose, hanno preparato spicchi d’arancia tagliati con la buccia - si devono succhiare – disposti in un piatto smaltato bianco decorato a minuscoli fiorellini verdi e rosa, con un bello stile. E due piattini vuoti dove riporre poi, la buccia.
2003: la caprettina - giocattolo e il “diavoletto” immobili nel piazzale deserto
Dice che sta bene Afaworki ma la moglie improvvisamene triste scuote il capo e mi fissa. Lui non vede e io fingo a mia volta, ma so che è molto malato e a tratti un dolore più forte gli fa fare una smorfia. E racconta di quando lavoravamo insieme e di quando me ne sono andata e lui ancora per tanti anni ha seguitato a fare il suo lavoro.
Ma ce ne dobbiamo andare e nei saluti, la moglie e le figlie che ci accompagnano vogliono regalarci un cartoccio di uova freschissime. Galline dalle piume gonfie e lucide, razzolano nella zeriba nel retro della casa. Oh, è un baleno: le uova! Era il 1952 e si facevano, mia sorella Lilly, Isa Granara ed io, delle passeggiate in bicicletta da villaggio Paradiso fino al Genio dove una bella strda sterrata ma in ordine, affincata da due file di meravigliose agavi dalle foglie striate di verde e di giallo… ecco, una mattina di quelle, incrociamo altre ragazze in bicicletta: Elena Zanchi e Tersilla Volpi, siamo tutte della parrocchia e iniziamo da lontano a sorriderci e salutarci, a farci le feste… c’è un “estraneo” però che arriva in bicicletta alle loro spalle: è un eritreo anziano, non tanto esperto di equilibrio su due ruote: sul manubrio tuttavia ha appoggiato uno zembil strapieno di uova…vuole sorpassare Elena la quale, anche lei per sbracciarsi in saluti alla nostra vista…non avendolo visto… uno sferragliare veloce e tutti e due a terra in mezzo a un mare di uova. Scendiamo tutte e ridiamo come sempre succede in casi semicomici. Quello che non ride è l’indigeno, ma anche noi la finiamo presto e tutte accovacciate a raccattare le uova rimaste sane (poche) per rimetterle nello zembil. Elena, sinceramente dispiaciuta seguita a chiedere scusa all’uomo. E lui tace per un lungo tempo sempre a raccogliere le uova, poi con voce alta d’un tratto, indiavolato, alza la testa: “Scusa, scusa, scusa, scusa la casso! E a me, adesso, tutte queste uova, chi me le paga?
Marisa Baratti