Revisionismo coloniale? Va bene, ma senza eccessi

 

Ho letto il libro “A un passo dalla forca”. Atrocità e infamie dell’occupazione italiana della Libia nelle memorie del patriota Mohamed Fekini di Angelo Del Boca. Sapevo di alcune pagine non esemplari dell’azione italiana in Libia, come la repressione di Graziani della guerriglia in Cirenaica. Ricordo però anche le sevizie ai nostri bersaglieri presi prigionieri a Sciara Sciat. Resto perplesso, soprattutto pensando alla mia esperienza in Libia: in quasi due anni e mezzo, durante la Seconda guerra mondiale, non ci fu alcun atto di ostilità indigena. Comunque il libro di Del Boca non concede agli italiani nessuna attenuante e li descrive come oppressori crudeli, secondo i peggiori cliché imperialisti; d’altra parte gli arabi sono visti come valorosi combattenti devoti alla loro religione e alla loro terra. Può chiarire i miei dubbi?

Carlo Gilli – Milano

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Per far passare gli italiani per «odiosi colonialisti» ce ne vuole, caro Gilli. Ciò non toglie che qualcuno ci sia riuscito e Angelo Del Boca è fra questi. Io so una cosa, e cioè che alla fine della Seconda guerra mondiale a noi, sconfitti e con il marchio del ventennale regime fascista, l’Onu affidò l’Amministrazione fiduciaria della Somalia, nostra ex colonia, lembo dell’effimero Impero.

Lei crede che se davvero fossimo stati «odiosi colonialisti» le Nazioni Unite, allora quanto mai sussiegose in materia, avrebbero preso quel provvedimento? Nessuno nega che nel corso dei cento anni che ci videro potenza (si fa per dire) coloniale furono scritte pagine non esemplari, quando non proprio odiose.

L’uso dei gas, ad esempio, sarebbe comprovato, anche se il suo utilizzo restò circoscritto e occasionale. Insomma, non ci facevamo strada a forza di iprite, nelle nostre fila non c’era un Alì il Chimico. Quel po’ di gas vescicante usato in Libia e successivamente in Etiopia proveniva dai depositi della Prima guerra mondiale (nel corso della quale ne fecero uso dapprima la Germania a Ypres, quindi la Francia.

L’Italia, mai e costituì sempre una «extrema ratio», non una pratica abituale. D’altronde, in quanto a pagine non esemplari sia i libici come gli etiopi (ovviamente non tutti i libici, non tutti gli etiopi) qualcuna ne hanno scritta. Privi del supporto tecnologico e chimico, ricorrevano a metodi spicci maneggiando le loro zagaglie. Con le quali tagliavano d’un sol colpo organi genitali, lingua, orecchie e naso di chi cadeva nelle loro mani lasciandolo poi morire per dissanguamento.

E non saprei proprio come sia preferibile andare all’aldilà, se per colpa dei gas o delle mannaie. Ciò che rende poco credibile il revisionismo coloniale - e lei, caro Gilli, ci punta il dito - è l’arbitraria, la pretestuosa distinzione dei campi: di qui i cattivi italiani, di là i buoni indigeni o i sublimi arabi. Ma anche se così fosse stato, e così non fu, si dovrebbe comunque prendere atto che, deposte le armi, buoni e cattivi finirono per convivere con reciproca soddisfazione. Traendone, entrambi, guadagno. Ora le racconto un fatto: essendomi recato a più riprese in Somalia - in qualità non di turista, ché lì il turismo è tabù, ma di giornalista - finii per entrare in una certa confidenza con l’allora presidente Siad Barre. Un giorno, allargando le braccia, mi disse: «Ma perché non tornate?». Visto il mio stupore, proseguì: «Quando c’eravate, se veniva una carestia ve ne occupavate voi, se veniva un’epidemia ve ne incaricavate voi, se mancavano gli ospedali e le scuole ve ne incaricavate voi e noi non morivamo di fame o di vaiolo e tutti i piccoli imparavano a leggere e a scrivere». Siad Barre, non a caso soprannominato «Boccalarga», parlava troppo. Però, quel giorno, mi parve sincero.

Paolo Granzotto

(da “Il Giornale”)