Giuseppe Pratò. L'ultimo pioniere
Con tristezza e rimpianto rendo noto ai lettori di Mai Taclì e a chi lo conobbe il suo decesso avvenuto ad Asmara il 24 luglio 2015.
Perché l’ho chiamato l’ultimo pioniere? Perché figlio di Natale Pratò, uno di quei pionieri e di quegli italiani che dal nulla avevano fatto dell’Eritrea un paradiso terrestre.
Giuseppe fu lui stesso un piccolo pioniere. Era nato all’Asmara il 6 novembre del 1926. Fin da piccolo aveva aiutato il padre Natale ed il fratello Vincenzo nella conduzione e nello sviluppo dell’azienda agricola situata ad Algatà Malek, sulle Pendici Orientali.
Quelle Pendici Orientali che, prima degli italiani, erano formate da pietrosi dirupi e intricati boschi mai intaccati da mano umana.
Con il lavoro e la tenacia dei Pratò la loro azienda era divenuta una delle più belle della zona. Tutto era durato finché nel 1948 quel gioiello era stato semidistrutto dalla barbarie degli Scifta. Giuseppe era espatriato ed aveva trovato lavoro come meccanico prima ad Aden e poi presso l’ARAMCO a Dhaharan in Arabia Saudita. Tornato in patria qualche anno dopo, aveva continuato ad occuparsi dell’azienda di famiglia nel frattempo fatta rinascere dal lavoro del fratello Vincenzo e della sorella Nicolina. Si era al tempo di Hailé Sellassié che, intelligente qual era, aveva lasciato al loro posto gli Italiani che gli servivano per la giusta conduzione dell’Eritrea, paese da lui sempre agognato.
Tutto poteva andare per il meglio finché la rivoluzione del “Negus Rosso” Menghistù Hailé Mariam, segnò praticamente la fine della presenza italiana in Eritrea. L’azienda Pratò nazionalizzata come tutte le altre, fu messa a ferro e a fuoco dalla soldataglia etiopica. Vincenzo si trasferì in Italia ma Giuseppe rimase ad Asmara insieme alla sorella Nicolina. In patria non aveva né lavoro né di che sostenersi, mentre il fratello era riuscito ad avere gli indennizzi che il governo italiano aveva concesso ai connazionali che avevano perso le loro proprietà in Eritrea. E con questi andava avanti ed aiutava il fratello e la sorella.
Cosicché Giuseppe, con l’aiuto di Vincenzo che puntualmente gli inviava di che sostenersi, continuò la sua vita ad Asmara per qualche decennio. Ma dei particolari di quella vita ne so poco o nulla. L’ho conosciuto nel 2004 allorché, ferito alla testa per una brutta caduta, (era quasi cieco) era stato inviato in Italia a cura e spese della Casa degli Italiani per essere operato al policlinico Umberto I° di Roma.
Lo accompagnai io. Era la prima volta che vedeva l’Italia. Gli pareva tutto così grande e così maestoso. Dopo l’operazione, ben riuscita, fu mio ospite per circa tre mesi. Un gentiluomo! Educato, rispettoso, affabile. Le nostre lunghe conversazioni erano imperneate soprattutto sui suoi ricordi.
Il suo pensiero ed il suo cuore erano sempre lì, ad Algatà Malèk. Erano vivi in lui la sua infanzia felice, il verde dei suoi alberi, la gioia dei raccolti, la visita delle carovane che dal bassopiano venivano ad acquistare tanta dovizia di frutta e di verdura.
Quegli stessi carovanieri per i quali Natale Pratò preparava unguenti, tratti dagli aranci amari, per curare le piaghe tropicali. E ci riusciva. In cambio i generosi cammellieri gli portavano doni di ogni specie, una volta perfino un piccolo cammello. Quanti ricordi, quanta nostalgia per quel mondo perduto! Il mio vecchio Pratò! Il mio vecchio pioniere dal cuore tenero e romantico! A questo, e per suo elogio desidero aggiungere:
Pratò era un buon italiano. Credeva ancora nei valori della famiglia e della patria, quella patria italiana che non aveva voluto lasciare o dividere con altre. Ma torniamo alla sua vita. Giuseppe, dopo la pausa italiana, tornò ad Asmara. Abitava in una casetta a Mai Ciaot tenuta pulita e ordinata da Habeba, la vecchia e fedele governante che non l’aveva abbandonato. Viveva serenamente, aiutato da Vittorio Volpicella, il factotum della Casa degli Italiani, l’angelo custode di tanti connazionali bisognosi come Pratò. Ma all’improvviso, in età appena matura, Vittorio era deceduto.
Giuseppe era rimasto solo e privo di assistenza. Fu allora che decisi di occuparmene. Io provvedevo alle spese mentre la signora Paola Matteoda badava alle sue necessità in una casa vicino alla sua ove aveva fatto trasferire Giuseppe. Da notare che Paola Matteoda conosceva Giuseppe fin dall’infanzia. Infatti la grande azienda agricola del nonno, l’avvocato Carlo Matteoda, era vicina a quella dei Pratò. In breve.
Qualche tempo dopo Giuseppe tornò in Italia per essere operato al volto deturpato da due grossi tumori. E a questo punto non posso fare a meno di ricordare e ringraziare ancora tutti quegli amici maitaclisti che in quella circostanza mi diedero il loro aiuto economico e morale.
L’operazione al volto andò bene. Giuseppe tuttavia non voleva tornare ad Asmara ma a me mancavano le possibilità economiche e fisiche per trattenerlo in patria. E qui mi viene spontaneo esprimere il mio sdegno per coloro che ci governano. Questi governanti “felicemente” tengono in vita un’infinità di campi Rom e di centri di accoglienza per immigrati africani. E va bene! Ma non una sola casa di riposo è stata costituita per italiani anziani e bisognosi, a cura, ad esempio, del Comune di Roma.
Che vergogna! E così Pratò tornò ad Asmara. Da casa Matteoda, igienicamente in cattivo stato, passò in quella della signora Lidia Corbezzolo, che si impegnò con me, ed a mie spese, ad occuparsi di lui finché fosse rimasto ad Asmara. Casa Corbezzolo: pulitissima, ordinatissima, ottimo cibo, solerte accudimento al nostro amico. Pratò era felice. Cantava. Gli piaceva cantare. Perfetto conoscitore delle lingue tigrina e tigré, preferiva cantare le nenie arabeggianti delle popolazioni tigré che aveva appreso dalla viva voce dei suoi amici. In casa Pratò non esisteva apartheid. Ma la gioia e i canti di Giuseppe sono durati poco.
Dopo qualche mese la signora Corbezzolo lo ha trasferito nella piccola clinica italiana “Villa Paradiso” che, per merito dell’ambasciatore Antonio Bandini, il governo eritreo ha lasciato agli Italiani per vecchi e bisognosi.
Per lo meno in Eritrea un ricovero per vecchi! E lì è morto Giuseppe, di tristezza e di consunzione.
Se n’è andato dignitosamente, senza disturbare nessuno com’è sempre vissuto.
L’ultimo pioniere d’Eritrea se n’è andato! Lo ricorderò sempre con stima e rimpianto.
Viva l’Italia, la nostra Italia, amico mio caro.
Rita Di Meglio
(Mai Taclì Congiunto 1° trimestre 2016)